Ricordo le stradine di campagna, appena lontani dalle ultime case del
paese. Le percorrevo a piedi. Qualche volta in bicicletta.
Le percorrevo senza cercare nulla. Solo la spontaneità del vivere spingeva
le mie gambe. Ero fiero e un po baldanzoso, anche un po pieno di quella
prepotenza che in quegli anni, forse , ci aiuta un po, ci allena a non
prendere pienamente in faccia il male che si annida nella vita.
Il ricordo più sereno e nitido è quello legato ai peschi in fiore in
primavera; ai noci che si spogliavano di foglie in autunno; alle viti
di asprinio dalle pareti alte, colme di un verde fitto, che sembravano,
con le cime, spingere un po più in alto il cielo.
Trascorrevo lunghe giornate in una sorta di isola. In essa mi
immergevo, trovando il varco attraverso cui si aprivano le
corrispondenze tra il mio palpito acerbo e il ciclo naturale del
giorno: il suo nascere e morire, i suoi riposi.
Un giorno in compagnia di un amico, dopo una lunga mattinata
trascorsa a dare calci a un pallone, in un momento di riposo,
iniziammo a fantasticare su un possibile tesoro da mettere insieme e
sotterrare in prossimità di un noce sito in aperta campagna. Il tesoro
era costituito da piccoli oggetti quotidiani: santini, matite colorate,
qualche moneta, giocattoli in miniatura, vecchie tazzine da caffè ,
disegnini fatti a scuola nel tempo libero e un foglietto scritto di
pensieri di cui adesso non ricordo il contenuto. Preparammo il tutto
con accuratezza, lentamente, come un piccolo rito sacro. Era un rito.
Non conoscevamo il senso né il motivo che ci spingeva a compierlo.
Raccogliemmo tutti gli oggetti in una scatola di latta che
verniciammo di un colore molto simile a quello della terra in cui
l’avremmo seppellita.
Preparato il tutto, dopo qualche ora, ci dirigemmo in campagna.
Scegliemmo il noce dall’aspetto più vetusto. Guadammo l’albero per
qualche minuto, e appena cadde la prima foglia, nello stesso punto
della caduta, cominciammo a scavare. Prima però di scavare la buca,
decidemmo insieme di circoscrivere un piccolo fazzoletto di terra, che
nella nostra immaginazione doveva essere solo nostro. Doveva
appartenere solo a noi due. Con un rametto ritagliammo, solcando la
terra con la punta, un quadratino di terra ampio circa un metro per
lato. Facemmo la buca – anche essa profonda un metro – e lasciamo
cadere il nostro scrigno sul fondo. Guardammo per un po nella fossa e ,
piano piano , a mani nude, seppellimmo la scatola.
Compiuto il rito, senza dirci nulla, ci incamminammo verso casa
attraversando i sentieri meno battuti di campagna. Costeggiammo la
masseria diruta di Sant’Anna, passando per la stradina interrata nei
pressi della chiesa diroccata delle Grazie. Ci fermammo a raccogliere
pere, mangiandole sul posto, distesi su un prato sotto ad un noceto,
all’ombra. Dopo un lungo riposo, riprendemmo il nostro sereno cammino
verso casa.
Appena giunti nella strada prossima alle nostre abitazioni, fummo
accolti dai nostri amici con stupore e rimproveri. Si chiedevano dove
cavolo eravamo finiti: ci aspettavano per la partitina. Ci
rinfacciarono che, senza di noi ,erano rimasti fermi senza giocare, che
il pallone era in nostra custodia, che per colpa nostra loro erano
rimasti tutto il pomeriggio senza giocare!
Io e il mio amico ci guardammo in faccia sorridendo, senza parlare.
Lui entrò dentro casa e dopo un poco usci con in mano il super santos.
Lo lanciò all’amico del gruppo più arrabbiato e, guardandomi, mi fece
segno di entrare nel suo portone.
Prendemmo le scale che davano sul terrazzo. Giunti sul tetto, ci
sedemmo su delle pietre di tufo poggiate sull’asfalto minerale. Senza
minimamente accennare al lamento dei nostri compagni di partita,
restammo seduti a lungo in silenzio. Io nella mia testa fantasticavo
sul tesoretto segreto: pensavo che sarebbe stato bello andarlo a
cercare quando sarei diventato grande.
Iniziai a parlare a voce molto bassa. Rivolsi al mio compagno la
domanda: “Siamo padroni di un pezzetto di terra di un metro per lato
appena…. non ti sembra un po pochino? Che ce ne facciamo di un
pezzetto di terra cosi piccolo?” Lui rispose :” Si, è molto poco come
spazio, ma…. ti rendi conto quanto in profondità possiamo
scavare?!”
Il mio amico -ammetto- che ebbe un intuizione che io , in quel
momento, non avrei neanche sfiorato con la fantasia: la profondità!
A distanza di venti anni sono ritornato nel luogo del segreto. Le
strade, ormai già asfaltate, mi preannunciavano un cambiamento che mi
avrebbe scosso, mortificato. Sono giunto sulla strada di campagna che
portava al noce. Davanti ai miei occhi non c’era quasi più niente del
luogo che ricordavo. Un grigio ed enorme capannone di cemento era stato
da poco costruito sul pezzetto di terra che avevo in “comproprietà” con
il mio amico. Il capannone sorgeva in tutta la sua prepotenza proprio
in corrispondenza dello spiazzo di terra in cui avevamo seppellito il
nostro segreto, circa venti anni fa….
Antonio D’Agostino
ho le lacrime, grazie…
ho le lacrime, grazie…