Si dice che l’ora piú frequente in cui si muore è prima dell’alba. Io per anni mi sono svegliato alle quattro del mattino e ho aspettato in piedi che passasse l’ora brutta. Mi mettevo a leggere o guardavo la televisione. Qualche volta uscivo in strada. Sono morto alle sette di sera e non è stata una cosa cosí speciale. Quel vago fastidio che era sempre stato il mondo, quel vago fastidio di essere al mondo è finito all’improvviso.
Era un giorno d’autunno e in piazza c’ero solo io. Tenevo stretto il bastone tra le mani. Il vento veniva da ogni parte. Mi ha sollevato in cielo assieme alla panchina.
Una mosca si è posata sulla mia faccia sudata. Io stavo morendo e lei si godeva il mio cattivo odore.
Io passeggiavo, mangiavo poco, cercavo di non arrabbiarmi con nessuno. Non è servito a niente. Facevo la prova da sforzo. Il medico mi aveva appena detto che dovevo pedalare ancora.
Io sono morto di vecchiaia, anche se non ero tanto vecchio, avevo cinquantanove anni.
Nessuno mi aveva spiegato niente. Ho dovuto fare tutto da solo: rimanere fermo e muto, raffreddarmi, iniziare a decompormi.
Ero un maestro elementare in pensione. Ero vedovo da poco. E questo è tutto.
Io ero un tipo allegro. Poi ho perso un figlio e mi sono caduti i denti. Vi risparmio il resto della storia.
Sono morto allo stadio. La mia squadra stava vincendo e faceva melina a centrocampo.
In certi casi, il mio per esempio, la morte è la ciliegina sulla torta.
Sono morto alle sette del mattino. Un modo come un altro per cominciare la giornata.
Io quelli che non hanno paura della morte non li ho mai capiti e adesso li capisco ancora meno.
Mi sono sempre sentito affannato e fuori posto nella vita. Adesso finalmente riposo tranquillo e in pace nella tomba vicino alla mia.
Sono caduto davanti al frigorifero. Mia moglie mi ha trovato con le mani sulla faccia, come se mi vergognassi di quello che mi era successo.
Non c’è neanche il niente, almeno cosí mi pare.
Pure io, sí pure io.
“Sono morto allo stadio. La mia squadra stava vincendo e faceva melina a centrocampo”
Questa frase, più di ogni altra, mi ha dato la sensazione della lentezza intima della morte. E’ per questo che ci fa paura individualmente e collettivamente, per questo corriamo: per fuggirla, negarla, esiliarla, nella sua lentezza immanente e intangibile. Invano.
Poi mi ricordo una certa leggenda de “Il Cavallo di Samarra”, ripresa poi da Vecchioni per “Samarcanda” ed è allora che la cecità di noi abitanti della modernità mi appare ancora più grave: potevamo sapere dalle leggende (le testimonianze poetiche dall’esperienza umana nei secoli, una controstoria ancora ignorata) ma abbiamo deciso di ricostituire una verità che escludesse la morte o che la ponesse, al massimo, come bordo estremo, limite superiore della vita.
Ed è così che il paradigma modernista va alla morte: correndo nella lentezza che lo circonda.
E poi, e poi, e poi: Il pensiero si riscoprirà umano? Imparerà dalla caduta l’umiltà del silenzio e della appassionata testimonianza? Una volta caduto a terra, l’orizzonte ci apparirà ancora più alto; quanti occhi avrà allora la morte?
E’ una notte indifesa, abitata da una speranza viva, mossa per fratellanza di sentore. Ma che importa poi: capire è forse un gesto estremo e giustificare è la nevrosi della testimonianza, che qui vuole essere quanto di più puro possa offrire questo respiro notturno.
Non ho cielo
fatemi volo
nel buio incompleto.
è bellissima l’idea di esprimere dei pensieri di persone che non ci sono più,mi ricorda un po’ l’antologia di spoon river.La paura della morte è insita nell’animo umano,cerchiamo di camuffarla ma il timore è sempre presente,viviamo un po’ come diceva Pascal il filosofo immersi nel divertimento per di-vertire non pensare.
A me piace pensare che i nostri cari ci vedano e sono vicini a noi.Comunque arminio è un grande poeta,poi anch’io per sangue paterno derivo dalla sua terra,amo scrivere insegno e sono appassionata di storie di paesi mi piace l’etnologia,la flosofia e la poesia.