di
Giovanni Simiele
A Bisaccia ci accolgono cimitero e mercato, un gioco di vuoti e pieni ci aspetta.
Alla festa di San Gaetano suoneranno l’orchestra Odissea e la Banda città di Pannarano.
Origlio che Rosa ha portato qualcosa a una signora, non so di più, mentre il sole picchia sul collo ma io sono raffreddato: “comm-à-sa-va?”, proprio alla francese.
Una bancarella con una donna araba erutta musica melodico-popolare alla Gigione.
Edicola-spazio aperto: “Il Mattino, Corriere dello sport, via Costantinopoli” e un accento piemontese.
Molti quotidiani sotto-ascella: si salutano o vagano nello spazio riconoscibile della piazza.
“Coiffeur Cariniello”: accorciati le ciocche e diventi più bello.
La folla del mercato annulla ogni tentativo di anestesia verso il paese; risuona “ahi se ti prendo”.
Una signora svuota una bacinella d’acqua sul marciapiede, di fronte a un “ciao” sul muro che invita ad andartene dal paese.
Penso al sentirmi estraneo a Vitulano, anche al mercato, e non poterlo essere davvero.
“Solo da me a truvati a robba e qualità, addò ato a truvati?”, un commerciante di stoffe e tappeti.
Un uomo indica alla moglie di aver visto il paesologo, io mi nascondo in un vicolo, il bambino con l’accento nordico non si stupisce, l’altro mi fissa.
Nella parte rannicchiata del paese c’è il silenzio profumato delle 12, cantine aperte con mostri elettronici in lotta contro bambolotti. Finisce anche la pietra, dà spazio al cemento e a scorci di campagna.
Sedie e cibo, per umani e gatti, non si negano a nessuno, a quest’ora spaccapietre in cui anche il cane è afflitto, nel suo cappotto di pelo.
“Attenti al cane” scritto a pennarello, non mi avvicino, nonostante una bandiera della pace, anch’essa dormiente.
I cani sono confinati ai bordi del paese, come la figura di una donna sulle punte delle mie dita.
Il signore commenta tra amici: “stanno facendo il percorso dell’Irpinia d’Oriente”; poi mi chiede conferma, gli rispondo “più o meno”, annuisce compiaciuto.
“sabato 11/08/2012
il museo civico archeologico e il castello ducale resteranno chiusi ai visitatori per festa privata(matrimonio)” ; stiamo salendo al castello.
L’odore della sala del castello allestita ristorante-crociera mi dà la nausea, per loro sarà inebriante: al primo sesso meno animalesco ritornerà in mente, prima a lei, poi a lui, dannazione di un legame così innaturale, lo stesso che ha reso inetto mio padre, nevrotica mia madre, ma forse era il loro destino.
Nel paese vecchio, sessanta persone, via Ciani, la chiesa affianco c’ha i teschi sul portale.
Nell’atrio di un palazzo uno arpeggia, l’altro, spaparanzato, ci guarda passare fuori.
Coniamo “locquacità im-provvisoria”.
Le righine biancazzure piacciono tanto sia agli artisti che ai paesologi, che qui si avvicendano.
Mi sveglio rintronato ma con un senso di leggerezza, come la nuvoletta rovesciata che guida le poiane nelle loro ascensioni dal tabaccograno all’infinito.
A Calitri siamo in un altro paese danzerino, una giga che si avvolge su se stessa; il tarantoragno ha invece costruito una tela opaca tra me e natalia.
Per l’otre della desolazione servono quattro scalini.
“Porcatory” su una parete che conduce alle lamiere che, come certe vocali, articolano il mutismo di questo pezzo di mondo ricostruito.
Si susseguono cunicoli di anime stravaganti, non statiche.
L’argilla delle pietre del castello si è lasciata plasmare come la striscia di liquirizia che mi tiene dritto, ogni volta un po’ rosicchiata, un po’ caramellata.
La fontana ha sembianze di donna seduta, voltata all’arsura del paesaggio, la sua fica bombata è al riparo dalle virtù sbandierate, e la sua mammella posteriore mi offre un’acqua preziosa.
La paesologia non è altro che eolografia.
“Cicoria Errico e Ricciardi” sulle tegole della rampa di lancio nel presente senza confini, come i novanta gradi tra Pescopagano Sant’Andrea di Conza.
Contro la museografia: erotici, eroici, performances eolografiche.
Bisogna mettere la testa sotto le pietre per accorgersi delle protuberanze dell’essere.
L’anziana vestita di nero critica l’assegnazione delle case ai “marocchini che non pagano nemmeno le tasse”, ma non è il solito rancore. Prevale lo scoramento per la partenza di molti dei dodicimila vecchi abitanti. Si dispiace che nel castello non abbiamo veduto il frantoio che apparteneva alla sua famiglia. Nel frattempo da qualche sparuta casa giungeva lo sferrazzare di piatti.
Quelli di Conza stanno tutti in Belgio, lì si fa la campagna elettorale.
A cosa servono i terremoti: la leggera discrezione della natura ha riportato Conza indietro di duemila anni.
Le rovine qui sono un’esperienza quasi psichedelica; allucinazione di caldo, erba e suoni che si inseguono tra ossa, pietra e ferraglia.
“il paese è morto, allora perché non hanno lasciato niente?” (Giuseppe, 5 anni, mentre cercavamo il pallone che non c’era)
Musica tamarra in macchina, le nuvole dal finestrino fanno evoluzioni come fazzoletti stracciati, lasciandoci “spantecare”.