di eliana petrizzi
Sulla parete della cucina l’orologio segna le ore di Paesi in cui sono stata quando non perdevo occasione per andarmene, per poi scendere di nuovo in apnea.
La mia dirimpettaia mi fissa con sguardo minerale. Chiude la tenda come si volta una pagina. Stamattina, approfittando di un clima insolito per la stagione, vado in piazza a sedermi sotto il tiglio. Il silenzio mi dice che ogni cosa è immutata e mutevole. Ascolto l’aria che passa sugli alberi della collina. Saluto qualcuno, ma non mi fermo con nessuno: parlare delle cose passate è inutile. Parlare di quelle future è stupido perché poi, di solito, non capitano.
Vedo il manifesto di un uomo morto a quarant’ anni. La campagna oltre il muro è rimasta come quando avevo cinque anni, solo più piccola, più spenta. Non è colpa della campagna, non sono i morti giornalieri: sono io che vedo ogni cosa com’era e come avrebbe potuto essere, incapace di considerare l’unica cosa che conta: com’è oggi.
Tre giorni fa Michele se ne è andato, un contadino che ogni giorno portava al pascolo le sue due capre nere in un fazzoletto di campo sopravvissuto ad un centro commerciale. Quando mi fermavo a parlare con lui, mi raccontava della guerra, di come faceva il vino e di come era difficile venderlo perché la gente di oggi se lo va a comprare al “supermercato straniero”, come lo chiamava lui. Poi mi diceva della stagione cambiata, dei suoi morti, dei figli lontani. Ora che Michele non c’è più, da qualche giorno passa avanti e indietro un tunisino che porta una pila di coperte e lenzuola sopra un vecchio passeggino. Urla qualcosa nel nostro dialetto, però storpiato, e così nessun lo capisce lo stesso. Lo guardo in faccia e mi ricordo di quando sono andata nella sua terra. In quegli anni, non solo in Tunisia, ma in molti altri Paesi visitati, ogni luogo aveva il suo passo e la sua misura; ogni persona, ogni più piccola cosa il proprio ruolo, la propria storia non barattabile. C’era nei miei incontri con la gente una fiducia operosa e sincera. Una volta sul posto, accovacciata per ore su uno scalino, lungo il ciglio di una strada o sulla soglia di una capanna, imparavo l’amore nell’estraneità di chi mi passava accanto. Poi qualcosa è cambiato. In un viaggio in Mali, tutto il paese si era coagulato intorno a me. Vai in Africa? Porta piccoli rossetti per le bambine, occhiali, giocattoli, penne, caramelle, mai soldi. Così feci. C’era un bambino che non era venuto ad accogliermi come tutti gli altri. Mi tirava il pantalone fissandomi con occhi immensi e vuoti, chiedendomi qualcosa con insistenza, ma io non capivo cosa. Così gli ho dato un po’ di tutto ciò che avevo: una penna, un paio di occhiali, una caramella. Li ha guardati con disprezzo, maneggiandoli come una banconota falsa. Poi, con un gesto consumato da adulto ha fatto il gesto del denaro. Sono rimasta desolata, io più povera di lui.
Ho come la sensazione che in tutto ciò che ci lega a quello che eravamo un tempo si celebri la morte di ciascuno, morte lenta, e senza resurrezione. Soffro per la perdita di radici in ogni cosa che mi circonda, che non è solo il nigeriano che scimmiotta le griffes su una spiaggia, il figlio di extracomunitari che non conosce la Terra dei suoi genitori, e che continua ad essere cancellato pure nella sua nuova Patria. Non è solo chi non sa che farsene delle proprie mani. La perdita di radici è anche l’imperfetto al posto del congiuntivo, è il vicino di casa che non ti saluta, è il sapore dei biscotti dell’infanzia, che oggi li rifanno uguali ma, per risparmiare, senza quell’ ingrediente che li aveva conservati per trent’anni nella tua memoria; è la maglia in poliestere pagata come il pane al mercato nero, è un’ amica costretta a lasciare il paese per far fruttare ciò che ha imparato in Italia, o magari per imparare di più.
Mi chiedo ogni giorno perché non me ne sono andata da qui, perché non me ne vado. I miei amici continuano a dire che sono ancora in tempo, che qui al massimo possiamo scavare insieme una grande fossa comune. Ma io, a quarant’ anni, proprio non ce la faccio a trasferirmi all’estero, ad imparare un’altra lingua, a costruire nuove radici, a dover lavorare in un bar la sera per mantenere una camera in città; io che alle nove di sera vado già a dormire, e che ho tutte le manie di una vecchia zitella. Così, per amore e per pigrizia ho deciso di restare, di vivere dell’indispensabile e di quelle poche soddisfazioni che quando arrivano sembrano sempre più grandi di quello che sono. Resto in questo paese come si resta con un compagno che a un certo punto della vita non si può più lasciare solo. La sua carne, un tempo vigorosa, è oggi una colata di vicoli amari come vipere, sfibrati dal pungolo delle dicerie, dall’ozio di braccia senza idee.
Pure, io solo da qui posso ricominciare e finire. Nei voli a bassa quota delle cose di ogni giorno, sono le difficoltà a riportarmi al valore sacro del poco. Anche quest’anno ho dovuto fare di necessità virtù, tornare al tempo dei nonni, quando i frutti venivano dall’orto, gli abiti si ricucivano, le scarpe si risuolavano. L’altro giorno mi chiama Don Antonio per una consulenza cromatica sulla ristrutturazione del suo ristorante. Ci vado più volte, chiamo, seguo le maestranze, compongo i colori, scelgo le tappezzerie e curo ogni dettaglio del nuovo locale. Insomma, lavoro. Giunto il momento di chiedere il compenso, ho come la sensazione che Don Antonio non abbia minimamente in mente che io possa chiedergli dei soldi, perché io sono un’artista, e mica l’artista è un mestiere! Così, lo vedo correre verso la cucina. Felice come se fosse giunto il momento di svelare la sorpresa, ne esce con una pagnotta di pane appena sfornato e una damigiana da cinque litri di vino paesano: “Grazie, grazie mille, Dottoré!”
In ogni crisi esiste in fondo una possibilità di rilassamento. Rifletti sul fatto che esiste un divario enorme tra valore e prezzo, che trovi sempre posto per una cosa in più, mai per una in meno.
Ma è il poco che vince, nella poesia, per esempio, come nel turismo, che non esisterebbe senza macerie. Non piacciono le case intonacate, ma quelle abbandonate con le pietre scoperte che rivelano la materia esposta ai suoi guasti, tracce di colori di campi e di cielo, finestre che restano chiuse nel buio delle cose che non tornano. In viaggio in una città nuova, non è la possibilità ovunque disponibile dei commerci ad affascinare il viaggiatore, ma il centro storico raccolto, la strada stretta, il selciato sconnesso, la taverna con pochi tavoli. Piace a volte pure un poco di disordine perché più vicino al crudo della vita. Nei musei, spaventano le statue ferme nello zero gelido della perfezione. Si amano invece quelle che conservano l’imperfezione dell’impronta, il calore dello sbaglio, il gesto rapido di chi, creando, continuava a vivere la sua giornata.
Quest’estate, ho rimediato una sedia ed un ombrellone di quelli che al primo soffio di vento si piegano all’indietro. Spiaggia libera, niente musica, niente bar. Solo così ho potuto finire di leggere un libro, riposare, accorgermi di quanto sia prezioso non pensare, mangiare a pranzo il panino preparato a casa, grande come quello di un manovale.
Verso sera, qualcosa nei colori del paesaggio mi ha ricordato le canzoni di Mina, le gonne lunghe delle donne, la toletta turchese, la cipria di mia madre. Tornando in paese, persino l’aria aveva il profumo della casa di un tempo. Da nord, il fumo di erbe che ardevano nei campi mi ha ricordato l’Autunno che aspetta dietro la curva dell’onda.
Lenta, vuota. Mai stata più felice.