di Eliana Petrizzi
Maggio 2011
Le erbe selvatiche raccolgono il vento, iniziando il passante alla legge schiva del luogo.
Lungo i vicoli, il suono del vento tra la legna accatastata. Appena arrivati, si vanno a salutare le comari, si accettano un dolce fatto in casa per l’occasione e qualche uovo fresco. Si parla della salute, dei figli emigrati a Torino o a Carpi, e si passa avanti.
Il tempo si deve alla campagna, alla cura degli animali e alla recita dei rosari. A pranzo, si cucinano i frutti dei campi sul fuoco del camino, col tempo che ci vuole. Poi si resta a chiacchierare di come si è preparato quel piatto, della stagione, dei morti, e di nuovo dei parenti lontani.
Anche questo, come molti paesi, è un luogo che stenta a ripartire. Non si può nemmeno dire che sia colpa dei sindaci. Fino a tre anni fa ce n’è stato uno che ha fatto costruire un piccolo albergo ed una piscina, un giardino con le giostre, il campo da calcetto; ha installato pannelli solari per alimentare i lampioni del paese, e promosso in tutta la regione il turismo in questo borgo vicino ad Aliano, inserendolo nel circuito dei percorsi tipici della Lucania. Qui c’è la seconda torre medievale d’Italia a sezione ovale, e c’è “La torre d’Argento”, una manifestazione che ogni anno premia personaggi lucani o di origini lucane, che si sono distinti nel panorama culturale nazionale ed internazionale. Oggi la piscina pare l’occhio di un uccello morto. Ha chiuso uno dei due bar del posto. Sono rimasti l’ufficio postale, il cimitero sempre aperto, una salumeria, una pizzeria. Gli anziani che stanno all’ospizio ogni tanto escono e si incontrano con quelli che abitano in paese. Siedono l’uno accanto all’altro sugli scalini della Pro-Loco, fissando la montagna, l’orologio fermo della piazza.
C’è una parte nuova fatta di case bianche. Di quattrocento abitanti scarsi, i giovani si contano su due mani. Il paese è l’ultima nota di un’eco rimasta incagliata nella montagna. Distante 200 km dal capoluogo di provincia, 70 dal mare, a 700 mt. sul picco della montagna, bruciato dalla neve in inverno, senza lavoro, senza ospedale, senza pronto soccorso, con una dottoressa che vive altrove e che viene qui due volte alla settimana. Senza più artigiani: le loro botteghe vengono riaperte per finta solo ad agosto, quando si organizza il mercatino degli antichi mestieri. In estate, diventa il paese in pietra che qualche turista passa a visitare tornando da Aliano o da Castelmezzano, e che i figli emigrati salutano senza troppa nostalgia. Le case ristrutturate si vendono a meno di 20.000 euro. Se hai una falegnameria, una stalla, un antico granaio da cedere, nessuno lo vuole nemmeno regalato, perché poi c’è da pagarci il notaio.
Qui ho trascorso l’infanzia: il fico e il ciliegio, il grano e l’ulivo, i papaveri e le ginestre, la vite e le querce, il passero e il ramarro. La fanfara delle rondini appena nate, il fischio dei falchi sopra i tetti, il Padre Nostro della Messa in TV che migrava dalle finestre delle case. Il vento alzava onde di cicale, di bande e di Santi che si pregavano ogni sera. La gioia era semplice come un anello di cotone: bastava un canto, del vino con la verdura, canzoni in cui erano gli uomini a cercare le donne. Le domeniche di fervore per l’arrivo dei parenti, le uova fresche, le conversazioni sul tempo e sul lavoro, il vento tra gli alberi con un brusio di miele caldo. E poi la pioggia sulle stalle, il tuono dei tamburi nell’aia, l’odore del cacio appena cagliato, del sugo che borbottava nel coccio di creta, il respiro tiepido dei nidi, il vento attraverso i camini spenti.
Non è cambiato niente. Se ti siedi sotto il tiglio in piazza, puoi sentire lo scroscio del torrente che scava la roccia tra le montagne, a 6 km. da qui. Neanche la casa di mia zia è cambiata. Zia Maria è di quelle che dopo il terremoto dell’’80 hanno rifiutato il contributo per ristrutturare la casa, perché non voleva cambiare niente di quando erano vivi i genitori. E così tutto è rimasto fermo al 1937: la credenza fatta da mio nonno a vernice bianca, l’intonaco verde gonfiato dall’umidità che sale dalla roccia, il lavabo in pietra, niente acqua calda né riscaldamento, i fili della luce rivestiti di cotone. In salotto, un piccolo altare accanto al telefono, pieno di santi, madonne e prece. Il bagno è di quelli che sporgono all’esterno dell’abitazione; lo scarico: tre secchi di plastica pieni dell’acqua del bucato. In basso, l’orto col pollaio vuoto.
Di sera mi fermo un poco oltre la balaustra della piazza, che finisce a precipizio nel vuoto del fondovalle. Guardo le montagne spente, i fari di una macchina che passa, la luna che sale, ascolto lo scampanare di una vacca lungo il fiume. Passeggio per i vicoli del paese. I lampioni illuminano gechi, insetti dalle zampe lunghissime, falene, i numeri civici scritti a pennello. Dietro le poche finestre accese, il telegiornale di Canale 5, un cucchiaio che rimesta nel piatto e si posa. I balconi aperti, il canto dei grilli, il ronzio di un frigo, il tuono di un aereo lontano. Poco dopo, dalle finestre socchiuse, solo il respiro di chi dorme.
Le case abbandonate restano tra quelle ancora vive, nei vicoli che qui si chiamano “1° vicolo Garibaldi”, “1° vico Regina Margherita”. A quest’ora si alza un profumo di fuoco, di pietra e di frana. Mi viene da piangere. Mio padre è morto. Quand’era giovane, anche lui voleva andarsene da qui, ma poi, quando è venuto a Montoro, è solo qui che voleva tornare.
Giugno 2012
Torno al paese di mio padre in pieno giugno, il mese migliore per visitare questi luoghi. Distratto dalle brezze dell’altitudine, il caldo non fiacca, le valli fioriscono, i fiumi si riempiono. La solitudine del posto ha di buono la pulizia delle strade: non trovi una carta per chilometri, niente scritte su muri, insegne e tabelle. Un falco incappato in correnti contrarie, resta immobile ad ali spiegate per un tempo indefinito.
Appena arrivata, mi accorgo di nuovi silenziosi crolli nell’assetto delle cose. L’anno scorso, chi mi conosceva si affacciava a salutarmi. Ora, chi vi abitava è morto, o se mi ha vista non mi ha riconosciuta. Sempre chiusa la piscina comunale, chiuso il tabacchino di Annina. Due Giugno: in piazza a mezzogiorno, nessuno. Solo le rondini e le loro covate, tortore, poiane, grilli in pieno sole, i mosconi nell’ombra dei vicoli, lo scampanio delle vacche dal fiume a fondovalle. Una nuvola bianca sale da dietro la montagna, come lo sbuffo di un vulcano. Nell’aria, un profumo di pioggia caduta lontano. Le impronte di un asino nel cemento del marciapiede, formiche che trasportano una falena morta come un santo in processione. Saluto commà Tinuzza e sua nipote, una ragazza che vive a Torino da quando è nata; un tatuaggio in pieno petto, piercing, capelli bordeaux, smalto nero alle unghie di mani e piedi. Se la guardi negli occhi, però, ci trovi la pacata disperazione del paese, che la città non ha convertito.
Vado a salutare zia Maria, 81 anni: più magra dell’anno scorso, più lenta a capire le cose. Sul balcone, in caldaie di rame, piante di basilico e di menta, e secchi di plastica per raccogliere l’acqua piovana. Polvere, grandi ragni indisturbati. Una quantità di cose accumulate da decenni: i giocattoli di mio padre, riviste degli anni ’40, le cartoline da New York spedite a Pasqua e a Natale dai parenti lontani. In cucina, tra la brace accesa in pieno maggio, il pentolino del pranzo.
Più tardi, visita a zia Rosina. Anche qui, un pentolino da bambola che mormora sul camino, le pareti con l’intonaco cadente, foto appese di morti, di santi e madonne, preghiere, bomboniere impolverate, grappoli di peperoni secchi. Zia Rosina parla come se le mancasse l’aria. Se le frasi sono troppo lunghe, alza le mani e chiede scusa. Le solite domande su come stanno i parenti a casa, se ti sei sposata, se no quando, e se non ancora perché. Finito il giro di visite, di nuovo da zia Maria. Seduta al tavolo, passa le giornate a leggere i calendari di Fra’ Indovino e i giornali dei Santi. Senza televisione da un anno: la vecchia Telefunken non ha il digitale, e quello che li vende abita in un paese oltre la montagna.
Esco in piazza. La festa della Repubblica qui è un giorno come gli altri. Mi affaccio oltre la balaustra, a guardare il paesaggio da un’altezza che è quasi un volo. Mi accorgo così che non è cambiato un solo dettaglio dalla notte in cui, chiuso mio padre al cimitero, rimasi a lungo a fissare una luna così grande che pareva dovesse venire il terremoto.
Mi siedo nella piazza vuota. Un venditore ambulante di frutta e verdura aspetta i clienti. Davanti a me, la saracinesca chiusa di Annina. Il suo manifesto funebre è stato incollato sull’intonaco di casa; non come da noi, dove li attaccano con la carta gommata, e dopo tre giorni non ci sono più. Qui la notizia rimarrà a lungo, cancellata dalle stagioni. I rintocchi dell’orologio che va un’ora avanti, il rosario della fontana. Prendo la macchina e vado a fare un giro fuori al paese, lungo un budello che si snoda tra le montagne. Lungo il percorso, strapiombi, calanchi, gli insediamenti arcaici del paese, un tempo ricovero di contadini e bestiame, la prima scuola di alfabetizzazione rurale per i contadini di montagna, la fonte dello zampognaro. Una lepre, poiane in volo rotondo sugli ulivi, un serpente che attraversa la strada in un’onda elegante e pacata. Le foto che scattato fermano il vapore del finocchietto selvatico, i fichi caduti sul selciato, cardi, certi fiori gonfi di semi piumati, una lumaca che attraversava la via, le fessure tra le pietre ai piedi degli ulivi.
Finito il giro, saluto Raffaele, un uomo che a cinquant’anni mi dice che è vecchio e che qui può aspettare solo la morte; che qui non c’è niente da fare, che è un posto terribile per viverci, che facciamo presto noi turisti a dire che è bello solo perché ci veniamo tre giorni all’anno.
I giovani del posto convincono poco con l’abbigliamento delle città. Alcuni, se vedono una faccia nuova in giro, sgommano in violenti testa-coda, o percorrono a tutta i tornanti della strada. Ma tornano subito, parcheggiano dove gli capita e si sdraiano al sole su una panchina, contro quieti fondali di ginestre. Percorro questa strada a piedi ogni volta per andare al cimitero dove è sepolto mio padre. Il cimitero è una radura severa che somiglia un poco all’isola dei morti di Boecklin. C’è poca gente: un uomo in cima ad una scala pulisce la lapide dei suoi defunti, uno davanti alla tomba della moglie parla con un altro della vendita di Cavani. La luna riposa in cima alla collina, fine come un’unghia. Passeggio tra i viali, poi mi siedo su un gradino all’ombra azzurra dei cipressi. Mi chiedo di mio padre. Da parte sua nessun segnale. Quando vengo a trovarlo mi siedo accanto alla lapide, ma non vedo l’ora di andarmene, delusa come una che è andata ad un appuntamento al buio nel posto sbagliato. Io le preghiere non le so dire, e se le dico mi distraggo. Allora con mio padre ho trovato un altro modo di parlare: guardando le case abbandonate del suo paese. Di fatto a mio padre non dico niente. Ascolto i silenzi richiamati dall’ombra delle pietre, il tepore tra muro e muro come tra palmi stretti. Case con le stanze crude, i pilastri che danno sui campi aperti, in una quiete così intensa da non riuscire quasi a credere alla paura che ogni giorno soffia sui miei battiti di passero. Finestre chiuse, aperte, murate. Nel loro ritmo, un alfabeto che non conosco e che mi riguarda. Quando mi alzo e me ne vado, so che io e mio padre ci siamo capiti, e tanto basta.
Voglio tornare al centro dalla strada che costeggia il cimitero, da cui posso vedere una veduta del paese buona per una cartolina. Strada chiusa: si sta costruendo la parte nuova del cimitero. Il cimitero qui a Cirigliano pare l’unica opera pubblica in cui il Comune si sente d’investire; di certo l’unico posto del paese destinato a crescere.
Il giorno si chiude presto, egualmente distante dai fatti e dalla noia. Saluto mia zia, che da trent’anni ancora mi dà pochi euro per comprarmi il gelato. Nelle vene ferme delle strade, un’aria di culla, un calore di palmi uniti. Anche quello che non si muove un poco si trasforma.
Maggio 2013
Mia zia parla un dialetto sempre più stretto che non capisco. In cucina, il ticchettio della sveglia, appesi ai muri i calendari di dieci anni fa, sempre spenta la televisione. Fuori, uccelli immobili portati dalle correnti, l’aria tra gli ulivi col rumore della pioggia che arriva. Dopo le solite domande sul lavoro e sulla salute, si comincia a fare l’elenco dei morti nuovi in paese. Al cimitero, i loculi col cemento fresco, ghirlande appassite, lombrichi accanto alle cappelle arrotolati come liquirizie. Questo mese è morto Giovanni, 50 anni, poi tre vecchi, uno del ’13, uno del ’17 e uno del ’31. Tonia è morta a 96 anni d’infarto, da sola in casa, mentre scaldava la verdura. Margherita è morta di vecchiaia da sola all’ospedale. Mia zia parla di Giuseppe, morto a 60 anni tra molte sofferenze, mentre il suo vicino, usuraio, a 95 anni è vivo e sta bene. Dice la stessa cosa pure di mio padre, morto a 61, e di Annetta, morta a 59. Finito il conto dei morti, il discorso passa alla vita dei vecchi nell’ospizio del paese. Dopo, nessuna di noi sa più che dire. Allora le chiedo se pensa che dopo la morte incontreremo i nostri familiari e i nostri amici, se può mai essere che in una vita che si spera così grande, tra miliardi di anime devi andare a ricongiungerti proprio coi tuoi parenti e con quelli del tuo paese, e se non è invece più probabile che farai amicizia con anime di un altro posto, o addirittura di altre razze. Mia zia risponde che coi forestieri non vuole fare amicizia, che lei per sicurezza prega ogni giorno, ma che dall’altro mondo nessuno è mai tornato.
Venerdì
Cumma’ Ninuzza: le feci una foto 10 anni fa. Lo scatto la ritraeva di spalle, vestita di nero già allora, la faccia contro un muro di calce bianca. Mi domanda chi sono, a chi appartengo e che sto facendo. Visto che sto fotografando case che crollano, mi chiede di fotografare anche le sue 3 casupole, una volta stalle e cantine, aggiustate alla buona per i tre figli che vivono in Germania, che vengono a trovarla una volta all’anno, a volte anche ogni due. Ogni tanto Ninuzza se ne va all’ospizio, quando le viene la paura di restare da sola in casa, per via dei giovani che vanno a rubare in giro. La borsa è sempre pronta: dentro, un paio di cambiate, e il vestito che le devono mettere nella bara se dovesse morire all’improvviso. Mi fa vedere l’orto, il giardino, la terrazza che finisce a strapiombo sul fondovalle; poi le radiografie dell’intervento all’anca, i Santi nell’altare sopra il letto, le foto del marito morto, poi quella del loro matrimonio, in cui Ninuzza ha un viso disperato. Mi parla di tutte le cose che vanno in malora: dei giovani sfaticati, del vicinato che muore, dei figli che non tornano, dei nipoti che non si conoscono, della frutta che si perde sugli alberi, della gente che non parla, e che se parla dice cose disgraziate. Mentre andiamo in piazza, io vado piano, ma lei dice che non devo rallentare, che lei al mio passo ci può stare. Poi, all’ultimo scalino: “Mi sono fatta vecchia. Che peccato per la mia giovinezza scomparsa”.
Sabato mattina
Si è alzato uno scirocco pieno di sabbia, che riempie le distanze di foschia. In piazza, tre vecchi sulle scale guardano la montagna con le mani in grembo. Uno di loro si alza, mi saluta e si siede accanto a me, chiedendosi com’è possibile che ieri era una bella giornata e oggi si è alzato questo vento, che ieri le cose stavano in un modo e oggi in un altro. Mi domanda se so che quello alle mie spalle è il palazzo del Barone. Sì, lo so. Dice che però è vuoto, che pure quella famiglia ha fatto una brutta fine.
Ore 13,30, domenica
Il fischio dei falchi sui tetti, mosche. Deserte le strade, la piazza, i vicoli. Chiusa la chiesa, le finestre, le porte. Vecchi infissi crollati, betoniere, impalcature senza operai. Piante grasse cresciute tra i lastroni delle strade, un cane che inizia ad abbaiare con un rancore stanco, dopo una mezzora che sono seduta lì vicino. In cima a una scala, il bagno esterno di una casa abbandonata. In basso, un albero pieno di albicocche mature che nessuno raccoglie. 30 anni fa in questo bagno è morto un vecchio, ma non se ne è accorto nessuno per giorni. Gesù Cristo ne ha fatta scendere di pioggia in 30 anni, dice uno che passa, ma le albicocche da quel giorno non le coglie più nessuno.
Programma della domenica pomeriggio: andare con mia zia al cimitero. Mia zia saluta il marito, poi i vicini e i loro parenti, con un bacio lanciato a distanza.
Ritornando in paese, nessuna di noi parla. Solo mia zia ad un certo punto mi chiede se lo straccio lasciato per mesi fuori al mio balcone è ancora lì, o se l’è portato il vento.
Eliana Petrizzi Blog
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Bellissimo post, grazie di cuore, saluti a tutti Gaetano Calabrese