di Eliana Petrizzi
Lo ammetto e me ne scuso: ho conosciuto Celati da poco. Avevo letto qualche frammento per caso, non ricordo dove. Il giorno dopo sono andata in libreria e ho comprato tutto quello che ho trovato: “Verso la foce”, “Passar la vita a Diol Kadd” e “Cinema all’aperto”. Quando sono arrivati i libri e i dvd sono andata a casa, ho spento le luci per incontrare un uomo di cui mi sarei potuta innamorare: un viso nordico, la scompostezza aggraziata di certe pose, una voce che mi ha fatto pensare a qualcosa di morbido che rotola lungo un pendio d’erba.
Di Celati ho amato da subito la scrittura pacata e precisa, quel raccontare usando le parole come passi lenti lungo una via, l’andare a suole basse, in accordo con quello che c’è e con i fatti che non accadono. Lezione maestra: lo scrittore si svuota di bordi ed appartenenze, in uno smembramento leggero in cui si compara a ogni cosa.
Quando ero piccola, mia madre voleva che leggessi soprattutto romanzi, ma a me i romanzi non piacevano, e non mi piacciono nemmeno oggi. Dei racconti non mi sono mai fidata: troppa fatica nel costruire personaggi e storie. Perché? Niente ti viene incontro a mani vuote. La scrittura deve raccogliere, accompagnandoti alla scoperta di quello che non vedi per eccesso di presenza. La scrittura di Celati parla in fondo proprio di questo: della nudità di ogni incontro, possibile solo se è l’accadimento puro a vincere sulle pretese della trama. Cura, attenzione, piano. Lasciare le cose l’una accanto all’altra, sfiorarle con le parole a lieve distanza. Più che le forme piene, considerare gli spazi vuoti: Celati invita a pensare l’intervallo come evento concreto. Sui gradini di una scala, sulle panchine di un parco, seduti su un marciapiede, lungo una strada qualsiasi di un posto qualsiasi, lo spazio si apre e respira, la vita è un’immagine di aria e pietra, di gesto ed assenza. La sfocatura diventa definizione estrema, l’intervallo cosa visibile. Nelle immagini di Celati le parole nominano le cose, senza livelli né giudizi: nomenclatura senza tassonomia in cui tutto diventa disponibile e vasto. Tocco perfetto dell’esserci, dove tutto serve, anche ciò che manca. Nelle scene di “Case sparse”, nei racconti di “Verso la Foce”, ecco il calore che prepara un travaglio e la pace che segue il parto, la speranza disperata che giace in fondo a ogni cosa, il nostro silenzio di passeggeri che non restano. Senza nostalgia: le parole e i luoghi stanno in una luce di giorno maturo, di bella stagione. Le rovine delle case sono un pane raffermo lasciato da qualcuno in strada. Intanto il sole gira, e il tempo che passa è tutto ciò che resta.
Celati non racconta storie: i fatti che evaporano lasciano percezioni in volo planare. Coi suoi personaggi puoi parlare del più e del meno, ma anche passargli accanto come a ciclamini in un bosco. Le loro attese non aspettano niente. Anche a Celati, ripreso con amici, operatori e passanti, stanno bene le ore vuote, il niente da dire, le spalle voltate, il poco da fare, i ritardi, le aspettative deluse, perché sa bene che l’imperfezione, la macchia, lo scarto, più che un’obiezione alla bellezza della vita, tante volte sono il palo a cui leghi l’aquilone.
Se mi fermo a pensare a tutte le cose che più amo della vita, mi accorgo che il vero talento della bellezza è di non averne in fondo alcuno. Sono brutti i giorni pieni solo di fretta, di luci accese senza scopo, di tutte le miserie dell’eccesso.
Leggendo Celati, il rimedio è andare, respirare, fare sempre e ovunque. Operare una fede poetica che non è né rinuncia né preghiera, ma un lavoro lieto, attento e disponibile a ogni cosa della vita: viaggio plurale, viaggio senza ritorno.