Microbiografie

di fabnig

Ottantacinque anni fa era un bambino di un anno, cadde con la faccia nel fuoco e il fuoco non si tirò indietro.

Alcuni sono andati via dal paese perché avevano paura dei cani, così dice la bambina.

La seminatrice

Luigina ha scelto di vivere sempre in primavera, è stata una scelta fatta per amore. Luigina indossa una gonna e solo una camicia, mai una giacca, mai un paio di calze. Luigina ritornò a scuola da adulta e ripiegò il suo grande corpo in un banco dell’ultima fila, lo fece solo per amore ma non bastò, così tolse la porta d’ingresso alla sua casa. Luigina quando ha la testa pesante mette una scarpa sola e camminando per le strade del paese semina i pensieri che escono dal piede nudo. Luigina lo fa solo per amore, ma non basta.

Qui sull’altura il giorno non mette mai la maschera e già dall’alba mostra le sue ossa.

Francesco ha lavorato quarant’anni in una fabbrica di formaggio in Svizzera. È morto nel suo orto, qui sull’altura, stringendo nel pugno sinistro quattro prugne mature.

Qui sull’altura chi perde l’entusiasmo si aggrappa a me, ma io non sono sicura. Sono una corda senza anima. Sono la paura.

Confessioni di un paesaggista.

Oggi sono nelle mani di Giovanni. Anni prima sono stato nelle mani di Antonio, padre di Giovanni. Prima ancora ero nelle mani di Giovanni, padre di Antonio e nonno di Giovanni. Sono passato da una mano all’altra come un testimone, e ogni generazione è stata un giro di pista. Conosco la loro terra e quella dei loro vicini, di tutti i vicini, palmo a palmo. Quando una zolla appena rivoltata vede la luce, tocca a me svezzarla. Accompagno ogni rivolo d’acqua, in superficie come in profondità verso la sua fine, che non di rado è un bicchiere. Mi chiamo Nitrato Ammonico. Sono il sale di questa terra. Un tempo c’erano uomini che mi abbracciavano con una mano. Ero chiuso in sacchi di plastica da cinquanta chili, mi stringevano forte contro il petto. Sentivo il loro cuore battere mentre attraversavano con falcate ampie e regolari i campi. Mi afferravano nel pugno e mi spargevano a terra. Oggi tutto è cambiato, mi fanno girare la testa con lo spandiconcime, è come andare sulle giostre, ed io ritorno bambino. Ho una certa età. Ho visto la luce nelle foreste del Vietnam. Ho un carattere esplosivo, ma mi considero un paesaggista. Quando a primavera attraversate in macchina le strade tortuose dell’altopiano e ammirate la bellezza dei campi di grano, sappiate che quel verde che brilla al sole è merito mio. Questa terra senza di me sarebbe solo una distesa di sassi e cicoria selvatica. Quando ritornerete a casa, mi troverete a tavola. Io sono in una fetta di pane, in una foglia d’insalata, in un piatto di pasta … buon appetito.

Qui sull’altura le regole barbare della poesia legarono il destino di un ospedale alle sorti di una volpe.  Una sera mentre attraversava la strada, la volpe fu investita, chi era alla guida non si fermò e l’ospedale non curò più nessuno.

La distanza di Angelina

Angelina è anziana e sola e veste di nero. Il marito è al cimitero e i figli in Svizzera. Angelina esce da casa due volte al giorno, tutti i giorni, la mattina e nel  pomeriggio dopo pranzo. Raggiunge a piedi l’orto, dove c’è il suo pollaio. Un chilometro, questa è la distanza.  Andata e ritorno sono quattro chilometri al giorno. Angelina dice che sono solo due passi.  Andata e ritorno sono centoventi chilometri in un mese.  Angelina dice che non conosce il divano.  Andata e ritorno in un anno sono millequattrocentosessanta chilometri.  Google dice  Andretta-Lucerna  solo millecentotrentasette chilometri.

Vivo qui, nei paesi dell’altura. Non sono di facile presa e maneggiarmi è rischioso, come lo è maneggiare una damigiana piena senza manici. Vivo qui, nei paesi dell’altura e drago il giorno dall’alba al tramonto, poi a sera mi ritiro dietro le porte chiuse perché godo di un regime di semi-libertà. Rassodo e conforto, ma non sempre. Ho la vivacità di una rana, ma non salto: frano. Sono la desolazione.

 Nei paesi dell’altura non è raro vedere i giorni ridursi a un intervallo tra un funerale e l’altro. Oggi, come ieri, ancora un funerale. Qui la scomparsa ha preso residenza. È la quotidiana morte del paese, ma è una morte che vede la luce ogni giorno.

Nel paese il silenzio ha una chimica incerta, è sempre in bilico tra il balsamico e l’acido.

Ferdinando lavorava come imbianchino a Cinecittà, erano i tempi di Fellini. Un giorno nella testa la pellicola si è spezzata e ora gira lungo i confini della piazza.

Pubblicato da david ardito

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