di salvatore de rosa
Una giornata in Irpinia con Giovanni, “contadino di ritorno”, provando a capire le ragioni di chi coltiva le poche terre campane rimaste oggi salubri e fertili. Tra prodotti di qualità e fattorie didattiche, aspettando la sagra del prossimo anno.
Mi lascio indietro la costa, Napoli, la pianura, le città, i viali ingoiati dalle fauci dei centri commerciali. Scorrono ai lati relitti di campagne che pregano senza un filo di voce nell’alba livida, vuoti come piane dopo una battaglia persa. Guido verso l’alto, ai monti, cittadino di provincia verso altre province, ostinato a scandagliare percorsi laterali, dove la storia è una falce e lo sforzo una virtù senza premio. In Irpinia, ventre di terra. Nome antico di misteriosa attribuzione: da Hirpus, che in lingua osca significa lupo, non sappiamo se dallo stendardo dei remoti migranti stabilitisi qui o se dall’epiteto conferito loro dagli abitanti delle città latine vicine al mare, vittime delle frequenti scorribande dei montani. Oggi una terra placida, consapevole di sé e con una bontà delle genti che agli occhi del napoletano sembra ingenuità.
É inverno, mattino freddo sulla statale che taglia i paesi, attraversa Arpaia e Montesarchio, si arrampica all’incrocio delle province di Benevento e Avellino. Le masserie hanno forni e camini accesi, il grano si distende bruno, indifferente al vagare dignitoso di un pastore. Qualche pneumatico di camion giace anche qui nei fossi verdi, ma solo in terra di nessuno, sui confini di proprietà. L’Irpinia non è esente dagli scaricatori di rifiuti, eppure sono pochi, controllati, colpiti. La terra salubre è ancora ricchezza, e oltre alle aziende agricole enormi e vigilate, i contadini severi puntano i piedi e alzano la voce all’apparire di materie intruse sui loro appezzamenti. Lo spirito della città ha trovato un argine nella geografia impervia del luogo: sulle colline ripide non hanno proliferato cantieri di complessi edilizi, industrie o parchi commerciali. Gettata com’è al confine tra sviluppo moderno e territorialità feudale, la campagna irpina trattiene le radici fisiche e culturali di un’ostinata agricoltura.
Il confronto del contadino con i tempi presenti assume a volte i tratti di una lotta per la sopravvivenza, altre il tentativo, sempre sospeso, di mediazione con le necessità del profitto, dell’utilità, del senso. Ma che sia un destreggiarsi senza rumore quello dei contadini rimasti, lo testimonia la pacata dedizione al lavoro, il barcamenarsi di una civiltà che non fa notizia. Civiltà non per la lingua, i canti, le arti e le tradizioni, pur vigorose, ma per il rapporto organico tra i suoi rappresentanti e l’ambiente, legati ancora dalla circolarità millenaria del reciproco infondersi vita. Proprio da un isolato fautore di questa resistenza mi conduce la strada sterrata. Abbandonate le vie principali, il fondo pieno di buche e avvallamenti è l’unico modo per arrivare da Giovanni, nel suo terreno a qualche chilometro da Montecalvo. Lo trovo al lavoro, occupato con i maiali e i volatili. Mi stringe la mano caloroso, la solita energica stretta simile al morso di un ciuco. Il camino in casa ci attende, con le castagne e qualche pezzo di formaggio, per spolverare insieme la vetusta definizione di contadino e per capire cosa voglia dire oggi, qui. «L’agricoltura che si pratica nella zona dell’agro nocerino-sarnese, nei dintorni del Vesuvio, nella Terra di Lavoro, è basata su più fasi, che significa più cicli, e quindi più raccolti. Minimo si fanno tre o quattro raccolti di diversi prodotti, specialmente nell’orticoltura il ciclo è continuativo – esordisce razionalizzando le differenze fra la piana campana e le coltivazioni irpine –. In queste zone, invece, il terreno è sottoposto a un altro ciclo di lavorazione, basato sulla produzione annuale. Si prepara il terreno a settembre per i cereali, il mais e i foraggi, si semina a novembre, si raccoglie a inizio estate, poi si lavora il terreno per prepararlo all’anno successivo. Sono monoculture basate sull’alternanza. È chiaro che producendo una sola volta all’anno c’è bisogno di più terreno e quindi le aziende locali nell’alta Irpinia e nell’alto Sannio sono costituite da un numero di ettari abbastanza esteso. Per fare il contadino in queste zone ci vogliono venti-trenta ettari, se ne hai cinquanta è meglio, perché con la monocultura devi attingere solo da quello. Quest’anno si è prodotto pochissimo, per via del clima, per via delle troppe piogge. Poi alla base della scarsa produzione c’è anche una scarsissima commercializzazione. Gli acquirenti del prodotto dalle aziende, spesso grandi compagnie, hanno tagliato gli acquisti affermando che il grano non era di buona qualità… ma era una scusa per mantenere il prezzo basso, perché il grano arrivava dall’Argentina, dal Canada e dall’Ucraina, che sono le fonti da cui si attinge il grano duro. Qui si produce esclusivamente grano per la produzione di pasta e farine. Devi avere un’azienda grande, e oltre a produrre cereali devi avere una bella stalla. Parecchi hanno la produzione di latte e lo conferiscono ai caseifici, e moltissimi, a Castelfranco, ad Ariano, a Greci, lo trasformano e vendono i formaggi, perché riescono a conservare una filiera legata all’usanza di famiglia, all’artigianato, quindi permane la capacità dell’individuo di trasformare i formaggi e di incidere fortemente sulla qualità».
Le due anime irpine, che già l’occhio s’era abituato a distinguere vagando le contrade, si chiariscono nello svolgersi lento e scandito del discorso di Giovanni. Le monocolture declinanti sui poggi sono il mare dorato di maggio che in inverno diventa terra nera di solchi, distesa di zolle vergini a ogni giro d’anno. Il grano “sudato e benedetto” è ancora il pilastro economico dei coltivatori. Accanto a esso, mai seppellita, l’arte della lavorazione dei prodotti esce dal focolare per farsi mercato. È il segno dei tempi, la necessità d’intercettare una domanda emergente dei consumatori: il prodotto tipico, la genuinità del cibo rurale. La tradizione diventa profittevole, soprattutto nel momento in cui l’elargizione dei fondi europei per le quote di grano sta per terminare, si parla del 2013, e i mercati si orientano all’estero. La stessa fine che ha fatto il tabacco, per intendersi, di cui sanno qualcosa nel casertano. Ma mentre giù a valle, tra Napoli e Caserta, la riconversione dell’agricoltura dalla quantità alla qualità sconta l’alto tasso d’inquinamento dei terreni e delle acque e la quasi sparizione dei coltivatori, in Irpinia i contadini dei paesi calpestano terreni perlopiù salubri e fertili. Inoltre, il conservatorismo istintivo delle famiglie locali e la relativa marginalità dai centri di sviluppo hanno consentito la trasmissione di parte del sapere rurale, nonostante lo sfilacciarsi irreversibile, anche qui, del tessuto di relazioni pre-esistente. Attraverso l’inerzia delle abitudini di chi è rimasto legato alla terra si è preservata la conoscenza di processi che oggi vengono spettacolarizzati dalla cultura di massa, e che le famiglie contadine seguitavano a tramandarsi anche quando l’industrialismo alimentare si affermava e nessuno dava più retta alla lentezza dell’artigianato. Spinte dal bisogno, alcune famiglie tentano attualmente di valorizzare in chiave economica la bellezza dei luoghi e le pratiche tradizionali, lanciandosi nel business del biologico e della ristorazione. Giovanni è al corrente del fenomeno ma è consapevole dei limiti che incontra: «Negli anni gli occupati in agricoltura sono diminuiti, ma non solo, anche gli abitanti dei paesi sono di meno. Montecalvo è un paese che dal ‘95 ha perso millecinquecento abitanti, ci sono case vuote, perché la gente non sapendo cosa fare è costretta ad andare via, a trovare lavoro lontano da queste zone, specialmente i giovani. Questi sono paesi destinati a essere abitati soltanto dai pensionati. Anche le aziende agricole sono condotte da anziani, sono pochi quelli di quarant’anni, e sono quasi del tutto assenti i ragazzi. Il tornaconto è poco. Poi ci sono dei problemi che non sono mai stati affrontati seriamente. Qui non c’è una strada decente, una strada che un normale camion possa percorrere.
La terra in queste zone è argillosa e non ho mai visto un intervento per prevenire le frane. Se a questo aggiungiamo che noi viviamo in una situazione precaria tutti i giorni, nel senso che se fa un’abbondante nevicata non si può uscire, se fa la pioggia si rischia di rimanere senza telefono e senza luce, allora diventa difficile vivere in queste zone. Purtroppo le istituzioni curano le città, dove ci stanno un sacco di voti, dove ci sta tanta gente; dove ci sta poco elettorato l’abbandonano. Neppure dai sindacati agricoli abbiamo mai avuto sostegno».
Sembra di essere a centinaia di chilometri da Avellino, in un altro tempo, più duro e ferino, eppure la città non è lontana. Delle castagne abbrustoliscono sul camino, Giovanni me le passa bollenti. Lui è un contadino di ritorno, uno che ha lavorato fuori una vita intera per poi seguire le origini. Emigrante come molti suoi coetanei, ferroviere per quarant’anni, è oggi tornato nella terra del padre, vedovo e vicino all’anziana madre, a dedicarsi agli ulivi, alle viti, all’orto e agli animali. Produce poco, non vende niente, ci tiene che sia tutto biologico e dona discreto ad amici e parenti il frutto del lavoro. La pensione e il sudore finiscono nella terra, per tenerla «gradevole allo sguardo». Quando non è in campagna è elegante e distinto, gli piace ballare, stare con la gente. Ma quando c’è da ammazzare il maiale in qualche fattoria delle vicinanze, viene chiamato e atteso, nessuno come lui sa fare un taglio preciso alla gola nel punto in cui la vena si gonfia. Nella contrada è conosciuto anche per altro: avendo dimestichezza con il “mondo”, da ex-emigrante, si batte per far rispettare le leggi nel territorio, scrive lettere ai prefetti e prova a organizzare eventi che facciano aprire all’esterno la comunità. Più tardi andremo a incontrare il gruppo di famiglie contadine con cui porta avanti un progetto. Per ora prendiamo la jeep e ci avviamo verso l’agriturismo di un suo amico che vuole mostrarmi. I pregi della cucina locale sono risaputi, su questo si gioca l’iniziativa economica di alcuni contadini che hanno investito nella ristorazione, trasformando mogli e sorelle in cuoche e le case rurali in parchi d’attrazione. Ce ne sono di tutti i generi, dal kitsch più estremo di marmi e fontane alla locanda povera e improvvisata. Dare da mangiare per poter mangiare, un bell’affare se salva delle famiglie la cui alternativa è vendere e trasferirsi. Tanto più che avendo animali non buttano niente, non fanno rifiuti, e i vecchi padri hanno salva l’unità familiare, evitando di essere lasciati soli ad attendere la morte. Giovanni un po’ li elogia un po’ li critica, tirando in ballo l’egoismo contadino, per cui ognuno «è geloso del suo fare» e coopera poco. In realtà mi ritrovo a pensare che la sopravvivenza sul mercato è prima di tutto un fatto di competizione. La fattoria dove arriviamo non si limita all’agriturismo, insieme ai proprietari ci sono i giovani figli che hanno deciso di restare, aggiungendo esperienze mutuate dall’estero e uno spirito innovatore alla salda tradizione agricola di famiglia. La fattoria è situata al limitare di un tratturo, le antiche vie della transumanza dalla Campania alla Puglia. Oltre alla cucina, ad attirare gruppi e avventori sono le iniziative pedagogiche e di intrattenimento. L’agriturismo è inserito nel circuito delle fattorie didattiche, meta di scuole, e organizza ogni anno l’accoglienza per una trentina di stranieri. Lungo una settimana di campeggio, cura degli animali, produzione di formaggi e lavoro agricolo, gli ospiti internazionali producono reddito e visibilità.
Pasquale, un ragazzone di trent’anni che con la sorella dirige l’innovazione della masseria di famiglia, mi conferma l’interesse crescente che l’artigianato alimentare irpino riscuote se solo si riesce a diffonderlo. Loro vendono oli, vini, marmellate e formaggi ai quattro angoli del globo, grazie a internet e a una certosina opera di marketing. «Abbiamo eliminato gli intermediari, il nostro rapporto è direttamente con il consumatore. Questo ci permette di vendere a un prezzo giusto e di recepire il giudizio degli acquirenti. In pratica, io vendo il salame a un australiano, se quello lo vuole più o meno salato può contattarci e glielo facciamo secondo le sue esigenze. La filiera ha solo due passaggi». Anche se questa “filiera corta” non è come la immaginavo, resta l’esempio di un’acquisita presenza sul mercato, figlia della consapevolezza ecologica e dei mezzi a disposizione.
Cala la sera, io e Giovanni giungiamo al caldo rifugio dov’è previsto l’incontro con le famiglie che abitano le fattorie disseminate nella contrada, raccoltesi per preparare la sagra del prossimo anno. Sono già tutti presenti; si affetta porchetta e scorre vino. La sagra, sotto la spinta di Giovanni, nacque quindici anni fa per raccogliere i fondi utili alla ricostruzione di una chiesa medievale adagiata su un poggio poco distante. La devozione e il lavoro hanno rialzato pietra su pietra il luogo di culto, e ora che l’opera è finita c’è il desiderio di non abbandonare la ricorrenza. In fondo, la sagra del vitello autoctono è diventata una tradizione, non disgiunta da una proficua commercializzazione dei prodotti. Per quanto burberi e asociali, anche gli anziani montanari hanno lasciato aperta la possibilità della cooperazione. Ho l’impressione che il pretesto più che concreto della sagra, sia anche un modo per attualizzare una forma di condivisione del tutto avulsa dalla priorità del profitto e da un folclorismo posticcio. La preparazione all’evento è più importante della sagra in sé. Rinsalda i rapporti, conferisce dignità al lavoro, e dà la possibilità a nonno Liberatore, ottantacinque anni, di suonare l’organetto per i vicini, di vederli ballare come un tempo. Mentre Giovanni prende la parola, mi ritrovo a pensare al buio di fuori, ai fossi e ai boschi dove cresce ancora l’asparago selvatico. Ostinato e duro, come i contadini.