Andrea Zanzotto – La simbiosi del luogo
di Costanza Lunardi
Si chiamava la Piaveprima della guerra del 1915-’18: la canzone ne cambiò il sesso. Qui sulla riva sinistra, rivolti alla sua prospettiva
amazzonica, viene da pensare alla femminilità del fiume che offre
allo sguardo una calma di pianura, una mobilità magnetica di acque
increspate quel tanto da farne intuire il movimento e illusoriamente
farlo apparire come un lago, nelle lame attraversate dal bianco accecante
delle isole di sassi emerse in seguito al suo dimagrimento.
Esaltato da una luce metafisica e vibrante, il paesaggio assume contorni
sublimi e familiari, una sintesi pittorica tra il silenzio sospeso della
Tempesta di Giorgione e l’atmosfera domestica di Cima da Conegliano.
Dove il Soligo, di un azzurro genesiaco, sbuca nel Piave, forma una
conca a ridosso della riva, “come se non sapesse dove andare” osserva
Andrea Zanzotto.
“Da ragazzi si passava sulla riva destra del Piave mettendo la bicicletta
sulla barca e dalle rive si giocava con le sguelze” (sassi piatti che, lanciati,
saltano sull’acqua).
Il celebrato poeta, tradotto in Europa e in America,
si muove con confidenza e intimità nel bosco di brughiera aggrovigliato
di alberi sani e sterpaglie di rami spezzati che accompagna il corso
del fiume. Lungo il sentiero le pozzanghere gelate sono accolte come
“segno necessario dell’inverno” che anima il suo attento, meticoloso
divagare sui sacri temi della meteorologia.
Insignito di innumerevoli premi e riconoscimenti, a partire dal mitico
San Babila-Milano che una giuria composta da Ungaretti, Montale,
Quasimodo, Sinisgalli e Sereni gli assegnò nel 1950, Andrea Zanzotto
preferisce l’appartato vivere di Pieve di Soligo, dove è nato, alla
destabilizzazione dei viaggi e degli spostamenti.
“Pur in contatto con l’internazionalità della cultura, mi sono fissato
lì muovendomi restando: in un certo senso vegetalizzarsi al di fuori
di ogni botanica, e mineralizzarsi al di fuori di ogni mineralogia o
geologia”.
I temi venuti da queste scelte sono stati fondamentali: il paesaggio ha
avuto un ruolo primario nell’identità culturale e poetica di Zanzotto. Il
padre Giovanni, figura di spicco dell’antifascismo locale ed espatriato
in Francia per ragioni di opposizione al regime, faceva di mestiere il
pittore e accostò Andrea al paesaggio nella sua valenza miniaturistica,
portandolo con sé a dipingere en plein air, sur le motif. Da un lato
si è depositata fin dall’infanzia in Zanzotto l’immagine di un’estrema
antichità del paesaggio, “quasi come se io lo avessi vissuto prima di
vederlo. Anche le persone le ho sempre sentite come fatte di terra”.
Dall’altro, proprio le gite adolescenziali in bicicletta oltre la riva destra
del Piave, alla scoperta del Montello – una zona di ondulate colline,
doline, boschi di faggio, disseminata di cippi e ossari, con trame di
strade e stradine, e una struttura a labirinto molto adatta a rappresentare
emblematicamente la realtà – hanno formato in Zanzotto l’immagine
del paesaggio come intreccio fortemente sedimentato di storia e natura.
Sopra un’altura si stagliano le rovine della leggendaria Abbazia di
Nervesa cui si arriva tra vigneti e boschi.
Esse appartengono a quella soglia in cui è riconoscibile, se non
addirittura esaltata, l’aristocrazia grandiosa degli isolati luoghi di culto
e di studio.
Qui, nel Cinquecento, monsignor Giovanni Della Casa scrisse il
famoso Galateo. Da luogo edenico per gli umanisti, a luogo-sacrario
dopo la devastazione della prima guerra mondiale, da grande bosco che
riforniva di legname per le navila Repubblica Veneta, con pene terribili
per chi osava aggredirlo, alle irreparabili offese al paesaggio dei tempi
moderni.
Da poco abbiamo lasciato lo straordinario paesaggio nella zona dei palù,
le paludi, che si estendevano per chilometri, originate dalle risorgive
provenienti dalle montagne, bonificate dai monaci cistercensi nel XIII
secolo.
Zanzotto, quale Virgilio dei luoghi, mi guida attraverso questi salotti
verdi, separati tra loro da piccoli canali in cui un tempo esistevano i
gamberetti e da quinte di alberi d’alto fusto di cui individuiamo l’identità
con un doppio sguardo che dall’alto si sposta alle foglie che ricoprono
il prato e che si mescolano con i rovi: pioppi, platani, carpini, qualche
rara betulla. Un seppia luminoso e invernale è la nota cromatica che
collega alberi e terra, la strada per Vidor è una linea retta tra file di
alberi.
Land art o paesaggio naturale? Aironi bianchi passano a volo sopra di
noi.
Che siano questi i prati dove Andrea Zanzotto il 2 novembre 1997,
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giorno dei defunti, andò recitando l’ode Al signor di Montgolfier di
Vincenzo Monti, dinanzi a un pubblico di vitalbe (Jekyll-Hyde/che sotto
sono streghe/e sopra buffi d’argento che ridono…), di ranuncoli, margherite, e
un tasso barbasso? E gliela recitò in dialetto, altrimenti non avrebbero
capito.
Vidisòn viene chiamata nel dialetto di Pieve di Soligo la vitalba, una
specie che a Zanzotto piace molto per la sua natura ossimorica, di vite
selvaggia e parassita che soffoca i boschi e, quando è inverno, di strana
nevicata con i suoi bianchi batuffoli sui rami avvolgenti e spogli.
Sedi del grigiore/sedi delle disfatte vitalbe/ma non vi è lesinata un po’ di luna…
E adesso, su verso i colli e i monti, dove è comparsa la “sacra neve”
alle spalle di Pieve di Soligo, lungo le strade dove un tempo si cimentò,
in bicicletta, il maschile vigore di Andrea Zanzotto, dove nelle osterie
dietro il banco c’è sempre una femeneta. Sulla strada per la chiesa di
San Gallo – una sosta alla Casa Rossa dove i cibi sanno di erbe e di
legni odorosi – forse derivazione dell’omonimo convento svizzero,
ricordiamo la storia dell’eremita là vissuto fino al 1945 e la tradizione
secondo la quale le mamme portavano via pezzettini di legno alla croce
affinché i bambini potessero dormire, come si legge nel componimento
San Gal sora la son.
Ecco le colline di Rolle, la sorgente della Rosada, i vigneti del caro
amico Nino, paleo-contadino scomparso anni fa quasi centenario.
Personaggio mitico nella zona per le sue stramberie e la sua genialità
creativa Duca per diritto divino/e per universa investitura; poeta-contadino si
era definito nel proprio biglietto da visita, e inoltre: attore, astronomo,
agricoltore, erborista, indovino e tanto altro ancora. Una sorta di Virgilio
dantesco, guida e duca nei misteri della natura e della vita agricola per
Andrea Zanzotto. Forse fu proprio Nino a far conoscere al poeta le
tribù dei topinambùr che gli piacciono molto, il cui nome, francese, è
quello di una tribù indiana dell’America settentrionale, come si legge in
nota a un suo testo; i gialli fiori che si aggregano nei luoghi più desolati
e rappresentano la forza liberatrice della natura, indifferenti a tutto.
Teneri plagi compiuti/dal verde e dall’azzurro dei prati/sui topinambúr qui
sbandati/da chissà dove, chissà se prima o mai più.
Il rapporto con il paesaggio e la vita è un andirivieni di vicinanza e
distacco, seduzione e allergia. Derisione e amore, forse?
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_evento.cfm?Q_EV_ID=326257#
Non c’ho dormito la scorsa notte ma oggi è andata come doveva andare, è stato finalmente rimesso in sesto un antico e maestoso arco in pietra pericolante. se ne stava lì aspettando che qualcuno se ne prendesse cura, se ne stava lì un pezzo del mio paese non ancora completamente dismesso.
Roba chirurgica, roba poetica sono state per me oggi quelle mani sapienti di operai.