il traslocatore dei paesi

Franco Arminio non è un paesologo, come lui stesso si definisce da qualche anno, e come è reputato da critici e giornalisti, bensì un traslocatore. Lui non va a vedere un luogo – i paesi dell’Irpinia, quelli della Lucania, i dintorni di Napoli e persino l’Alto Adige –, va a prelevarlo, per cercare di portarlo in salvo. Il suo trasloco è particolare poiché avviene nel linguaggio; quello che Arminio reca con sé sono parole. Del resto è prima di tutto un poeta e uno scrittore, per quanto abbia preso a fare il documentarista e il fotografo: registra immagini dei luoghi che attraversa, e scatta

anche fotografie, come le 150 porte che illustrano, in una sorta di piccolo puzzle, la copertina dell’ultimo libro: Terracarne (Mondadori, pp. 351, € 18). La sua è in definitiva una sorta di fuga. Da piccolo il maestro una volta non gli ha dato il permesso di fare la pipì, racconta, e allora è uscito dalla finestra, a piano terra presumo, e se ne è andato. Da quella fuga, aggiunge, non è più tornato. Da cosa fugge Arminio? Lo ripete quasi in ogni ritratto di paese che raccoglie in queste libro: da se stesso. L’attacco del secondo capitolo è emblematico: “Io abito il mio corpo come si abita una casa sospesa su una frana. Scrivere è un modo per tenere a bada il pericolo, la perenne emergenza su cui è fondata la mia vita. La scrittura fa la spola tra i mali veri e presunti del mio corpo e tra i mali veri e presunti della mia terra”. Due proposizioni che danno il senso del lavoro letterario, ma anche culturale, e persino politico, che Arminio fa da anni in modo testardo, continuo e ossessivo. Nelle sue pagine non si trova mai un’idea del Sud, di cui pure racconta il lato in ombra, i paesi abbandonati e deserti, il post-terremoto in Irpinia; nei suoi libri in prosa e in poesia (Viaggio nel cratere oppure Cartoline dai morti) non c’è alcuna ideologia sociale o politica, e neppure una proposta per cambiare le cose, per migliorare il mondo. Arminio è un poeta, e ai poeti non si chiedono ricette per risolvere i problemi, bensì parole che ci tengano desti, ci scuotano e anche ci consolino. Questo fa lo scrittore di Bisaccia, borgo abbarbicato nell’Irpinia d’Oriente, uno dei più originali e imprevedibili autori della letteratura italiana contemporanea, e al tempo stesso autore che possiamo definire politico. In cosa consiste la sua politicità? Nell’identificarsi con il paesaggio che ha intorno, nello scoprire di continuo che le sue malattie – è un ipocondriaco – sono anche le malattie della terra che abita, e viceversa: ogni paese dismesso, mal curato, deturpato, sbrecciato, trova in lui un corrispettivo, un segno, nel corpo e soprattutto nell’anima. Li somatizza, come se la terra che ha intorno fosse lui stesso, e viceversa. Seguendolo nei suoi itinerari, debitamente illustrati da una serie di cartine accluse al volume, noi vediamo quello che anche lui vede, ma lo scorgiamo sempre attraverso il suo corpo; meglio: attraverso gli umori; poiché Arminio è uno scrittore umorale. L’accidia, l’ansia, la depressione, la malinconia, lo tallonano da vicino, anzi gli sono addosso come parassiti che lo infestano, ma gli forniscono anche un’identità; e lui, mentre se ne va a Rivello o a Viggiano, mentre si sposta da Forenza a Banzi (nomi che a chi vive lontano non dicono nulla, ma che invece evoca come potenze visive attraverso poche righe o piccoli accenni), sente che l’ansia lo tiene d’occhio, per quanto abbia smesso, ad esempio un mattino, di assillarlo: “Sto legato alla sua cuccia, ma il guinzaglio è più lungo”. Così si descrive nei brevi e fulminanti capitoli di questo libro di narrazioni e viaggi. Eccolo un mattino su una panchina, mangia un panino; non vuole perdere tempo, sciupare minuti o ore preziose, seduto comodamente a tavola. Lui è andato lì, in quel paese, per vedere cosa c’è: la gente, le strade, i bar, i cimiteri, in particolare. Va in giro a nominare, e mentre nomina cose e persone, vivi e morti, ci racconta un Sud davvero inedito che è rimasto per decenni invisibile, e di cui nessuno, o quasi, parla più. La desolazione è la sua Musa, ma non c’è solo lei. Arminio è anche ispirato da un profondo sentimento umoristico, perché mentre si leggono le sue pagine si ride per i continui paradossi, le descrizioni di sé e degli altri. Pratica la politica dell’humor, che è un altro aspetto della sua personalità. Al termine di queste pagine, scritte con eleganza eppure ruvide, si conosce, o riconosce, il Paese che noi tutti abitiamo, le cento e mille località distese lungo lo Stivale, dove alloggiamo, o abbiamo alloggiato, perché Arminio non descrive solo l’Irpinia desolata, bensì un luogo dello spirito che conosciamo molto bene. Per questo Terracarne, che prende il nome dal suo particolare modo di essere, non è un libro localistico, bensì globale, mondiale. È un libro sui paesi senza essere paesano, sull’identità senza essere fornire alcuna identità, un libro singolare eppure universale. Ha ragione Roberto Saviano quando dice che in questo libro, nelle sue pagine, ci sono frammenti di luce. A tratti abbagliante.

marco belpoliti, da la stampa del 26-10-2011

5 pensieri riguardo “il traslocatore dei paesi

  1. Molto bella questa recensione.

    Bello anche l’articolo sul Manifesto sull’Italia che frana, realmente e metaforicamente.
    Quando capiremo che dalla salvaguardia del territorio potremmo ricavare non solo benefici ma anche posti di lavoro, se solo usassimo un pò la testa?

  2. amici, bene, molto apprezzata questa recensione, mi compiaccio!
    marco belpoliti ha saggiamente dosato parole oltre la cicostanza che ci fa amare il nostro carissimo franco. da sempre belpoliti osserva arminio e stavolta lo fa dando risalto a questa scienza dell’anima e dell’andare incontro ai luoghi con i loro paesi e percorsi che è la paesologia. un caro saluto a tutti, gaetano calabrese

  3. Condivido, è una bella recensione. Poi c’è anche una piccola soddisfazione personale.
    Era aprile e i pensieri comunitari giravano intorno ad una rupe in cerca di appigli. Scrissi questo commento ad un post di Arminio:

    Contributo all’ossessione arminiana di un pubblico che lo privi del suo privato.
    Caro Franco
    Penso che “un” cairano si farà, probabilmente senza di te, e sarà tangibile.
    Sulla rupe la politica ha occupato il posto della poesia e la politica non è una scienza arresa, ma una scienza che cerca la resa del paesaggio che fronteggia.
    Ti hanno accusato di essere avanti solo nella scrittura. Tu sei avanti nella visione. Hai reso cairano immateriale permettendogli di evadere e di riprendere forma nei corpi di chi gli rende visita.
    Anni fa ho letto “L’uomo che piantava gli alberi”, oggi ho incontrato lo scrittore che sposta i paesi.

  4. Condivido.

    Sto portando a termine Terracarne, centellinandone le pagine che mi accompagnano prima del sonno e al risveglio. Un appuntamento fisso. Molte pagine le conoscevo per averle lette in anteprima sul blog o privatamente. E’ bella e sorprendente la struttura del libro, il modo come è stato “fabbricato” e messo su. Ne ricavo come un sapore di buone vecchie cose fatte a mano, con la maestria degli artigiani, cioè dei veri artisti.

    Si stagliano con nitore i due personaggi attanti principali: l’io narrante arminiano e il paesaggio, in un corpo a corpo ectoplasmatico: una lotta non fatta di pugni e di violenza, ma di inestricabile confronto trapuntato di domande quasi sempre senza risposta, perchè l’uno è specchio dell’altro e – si sa- lo specchio altra risposta non ha se non riflettere l’immagine di chi vi si pone innanzi. Così è il paesaggio per Arminio. Così è Arminio per il paesaggio che attraversa, e che vive vivendolo con gli umori del momento, essendone continuamente stimolato.

    La scrittura piana ma non piatta, che mi accompagna lungo la felice scansione di capitoli e sezioni, sciorina i temi della desolazione, dell’abbandono, della critica lucida, ma non gridata al modello di sviluppo che ha devitalizzato e spento il paesaggio ; i temi dell’orlo e della cementificazione, dell’autismo corale e della clemenza, dell’accidia e del rancore, i due veleni effetto e causa della morte dei paesi, osservati con disincanto e un fondo di malcelato amore; temi che si adagiano sulla pagina con la dolcezza e lo stile poetico che tutti conosciamo.

    Terracarne , via via che giungo in fondo, ha un ritmo dolce.Ho la sensazione di essere preso per mano e condotto sulle alture,lungo valli e calanchi o nel bel mezzo di paesi/palazzine o nel caos polversoso della pianura devastata della Campania (in)felix dove giacciono i “paesi giganti” -felice espressione arminiana a suggellare la pretenziosità di città/periferie che altro non sono se non paesi gonfiati a dismisura, escrescenze di metropoli- oppure di trovarmi a fianco di chi parla , in una sorta di “campo americano” continuo della narrazione, ove ogni elemento nell’inquiadratura/scrittura è bene a fuoco e ogni sfondo è proscenio e quinta e dettaglio allo stesso tempo, come se leggessi/vedessi attraverso una lente bifocale.

    Ecco, in Terracarne mi pare di aver colto questo dato nuovo nella scrittura arminiana: la capacità di sintetizzare il paesaggio in una scrittura/visione come in una sorta di “punto di vista del pubblico in sala”, a inquadratura fissa, come nel cinema degli inizi; e , cononostante, la sua scrittura qui presenta il “prodigio” di regalarti la magià di dettagli e movimento, grazie all’ incantamento dello stile e della cifra, che sprizza in pagina con leggerezza e fluidità, come nato di getto, eppure frutto di un lungo e faticoso lavoro di revisione e di cesello.

    Una scrittura che – si sa – mi è cara e familiare, ma che qui presenta una grana fine di qualità e dignità; uno stile di grande finezza, alla portata di un pubblico molto più vasto della (ormai) familiare platea del narrator/poeta bisaccese, pubblico che qui trova (e se vuole) un efficace antidoto ai prodotti adulterati del mercato librario.

    Auspico un felice esito di vendite per Terracarne. Sarebbe un giusto riconoscimento all’impegno e alla grandezza di Franco Arminio. Grande, fragile e difettosamente umano, e perciò abbisognevole – come tutti e come chi merita – di riconoscimento e riconoscimenti. E sia(no).

    Bella e centrata la citazione da uno scritto di Elda Martino in esergo : epigrafe efficace, che sia d’ auspicio alla nostra cara Elda perché possa dedicarsi con altrettanta generosità alla propria scrittura. Ne ha statura e stoffa.

  5. Un solo appunto: non è -solo- nel linguaggio che Arminio porta in salvo sé ed i paesi, è piuttosto -attraverso- il linguaggio (o meglio: la poesia) che recupera la realtà viva e tangibile di sé e dei paesi (del mondo, e dell’uomo – nel mondo). E’ deviazione critica (accademica?) costante, quella di ridurre tutto a linguaggio; è altrettanto cura costante e costosissima (in termini personali, anche di grande e doloroso fraintendimento – per anni, o persino per secoli) dei poeti riportare alla realtà concreta del qui ed ora ciascun lettore, rimandarlo a farci i conti davvero: perché l’amore della parola viene da ed ha bisogno del corpo vivo ciò che dice, rimanda alla realtà dell’azione intersoggettiva – se poesia significa, ancora, fare.

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