La “moda” del contorcimento. (appunto primo)

Graham Vivian Sutherland
Graham Vivian Sutherland

L’occidente è labirinto. Le nostre “stanze” interne sono intasate di ogni sorta di merce, che la storia ha fabbricato per eludere il fato. I suoi tanti volti. Per noi contemporanei smarriti, non ci resta che navigare a vista dentro queste acque pesanti. Siamo convinti che solo l’oscuro, il putrido e l’indecifrabile, consentano di rievocare, “mettere in luce”, il nucleo infuocato della lirica, del canto.

Siamo immersi nell’estasi rattrappita di un capovolgimento: un tempo guardavamo gli astri, tenevamo la testa “alta”, in cerca di un firmamento che, attraverso i suoi disegni, ci restituivano un metro di chiarezza. Da questo, nascevano strade, basiliche; determinavamo i punti focali per erigere villaggi, città.

Il nostro sguardo “attuale” è quasi sempre basso. La schiena è curvata sull’asfalto. Il negro arazzo pedonale è diventato la nostra metafora definitiva, su cui mettere in scena i nostri giochi mentali, le risse dell’io con il mondo, la partita impossibile tra pelle e vento.

In tutto questo la parola ha smesso di conclamare la ferita tra carne e anima. Si è smarrita nel brodo insulso della nostra testa. Ha smesso di parlare, finendo inceppata in un percorso sinaptico, in cui si è insinuato un enzima blaterante, che ripete all’infinito, quello che siamo quello che vogliamo.

Siamo ridotti a ripetere i margini, le sagome e le pieghe di quella parte di labirinto che la contingenza ha stampato tra le nostre tempie.

La città è la nostra mente. Nel labirinto in cui il Minotauro è ormai assente, ogni nostra lotta, ogni rimedio non costruisce più alcuna forma di chiarezza. Il filo di Arianna è spezzato. Il contorcimento è l’unica forma di approdo al dolore. Il “canone” che ci distingue nel canovaccio delle prove reiterate, di un io che vuole o non vuole, non ha più storia, non ha più senso. La perdita del “chiaro” ha aperto la strada alle lamentazioni fatue di un anima-rottame che stride nella stanza dei suoi “necessari” contorcimenti.

antonio d’agostino



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3 pensieri riguardo “La “moda” del contorcimento. (appunto primo)

  1. In effetti, an-tropos è colui che guarda in alto, e con-templa, e fabbrica ‘templa’.
    Meglio tirare fuori l’an-tropos dentro di noi, piuttosto che contare quelli che mancano nella città…

  2. i dolori lucidi dilaniano meno e portano ancora a guardare il cielo e innescano fermenti che donano a sè e agli altri spazi e tempi fecondi.Il contorcimento avvita l’io,lo cattura rimestando nel buio dove gli idola lo ammaliano con il canto perverso che sanno dare.In queste acque si naviga senza rotte e sia le terre d’Oriente che d’Occidente cercono nuovi marinai.Ad ogni orizzonte,vicino o lontano,viene a mancare la linea che rimarca l’infinito.Chini sulle proprie ombre si vive il provvisorio con la fretta degli addii.Niente sembra,per chi vive nutrendosi dell’immediato e dei suoi dolori chiusi e confusi,aver minima luce.Così non si produce canto e non c’è possibile catarsi.Il mondo intero,allora,se produce umanità così confuse,può dirsi perso.Tutti i meridiani e paralleli li vedo distesi nel reticolo del labirinto dove si inerpicano con spasmi frenetici e fanatici una miriade di “Ismi”

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