Rocca e Sturno

Cosa ci succede la notte quando dormiamo? Si dice che riposiamo, ma sicuramente accade anche qualcos’altro. A me di sicuro accade che si rompe qualcosa. Ultimamente mi sveglio con una trave sullo stomaco. C’è un terremoto notturno e il giorno comincia tra le macerie. Il pensiero corre e gira come una mosca intorno alle cose storte. Mi sento completamente indifeso, come se il mio stesso respiro potesse ferirmi. Non sono una persona, sono un corpo abitato da pensieri abusivi, sono una creatura disordinata. Oggi mi sento peggio di ieri mattina. Non c’è un ascensore che ti riporti in alto. Non ci sono neppure scale. Devi arrampicarti in qualche modo. In genere la salita finisce dopo cena, allora cominci a sentirti un poco in salvo, quando la giornata è finita.

Ieri lo spiraglio è stato andare a Rocca San Felice. Le quattro del pomeriggio all’inizio di luglio è un buon momento per uscire. Immagino che dal soffitto della casa cadano aghi invisibili, la residenza al chiuso impolvera, corrode. La gente sta troppo tempo al chiuso, usa le case per ripararsi. Muri e cancelli dentro e fuori di noi. Questo è il primo errore, la casa è divenuta una prigione.

Con la prima persona che incontro il discorso cade proprio su questo argomento. Il signor Quagliariello faceva l’imprenditore edile in Alta Savoia. Lì è stato anche vicesindaco per due mandati. Poi si è fatto una villa al paese e se n’è tornato assieme alla moglie. La casa è la sua palla al piede. Non può lasciarla perché al ritorno ha paura di trovarla divelta. Non può venderla perché in questi paesi ti offrono un decimo del costo. La casa è il suo lavoro. Deve tenere in ordine il giardino, deve accudirla. Allora si può dire che certe persone non vivono dentro ma sotto la loro casa.

Prima del signor Quagliariello avevo parlato con uno che si chiama Giovanni e che faceva il falegname. Negli anni cinquanta era in Venezuela, impegnato nella costruzione della strada Panamericana. Dice continuamente che la zona era piena di serpenti. Mi pare evidente che le persone emigrate hanno qualcosa in più da raccontare. I compagni di panchina, Pasquale il geometra, e Antonio impiegato della Comunità Montana, mi sembrano figure senza grandi ardimenti.

A questo punto vado a farmi un giro verso la Rocca. I gerani spiccano sulle pietre delle abitazioni ricostruite con cura. È una scena per la videocamera, non per la vita. Queste dimore sono chiuse e la torre in alto è vuota. Alla fine sono in uno scenario per turisti ma senza turisti. Uno del posto mi dice che fino a qualche anno fa arrivava qualcuno, adesso non si vede nessuno.

Io salgo senza molti affanni. Mi piace respirare, sento chiaramente che quest’aria mi fa bene. Non sono un turista, sono qui per scrivere e filmare. Chi non viene qui per scrivere e filmare non è che ha molto da fare. Il turista tipo è difficile che incroci il signor Quagliariello e Giovanni il falegname.

Quando torno sotto il tiglio una persona anziana mi chiede se sono io il paesologo. Insiste per offrirci qualcosa al bar. Si chiama Renato Agosto. Ci dice che è un compositore e si lamenta di ricevere poche attenzioni nel paese. Ha composto moltissimo da autodidatta. Mi recita anche un pezzo che ha musicato. Lo ascolto, sento la tristezza della voce. Penso alla sua solitudine in questo paese. La moglie da qualche anno è su una sedia a rotelle. Immagino come può girare ogni giorno la sua vita e proprio non riesco a immaginare come può girare la mia a ottant’anni. Anche questa non è una storia per turisti. E a me serve per rinforzarmi nell’idea che avere qualche talento in un paese è più un problema che un’opportunità.

Usciti da Rocca, andiamo verso Sturno. Qui ci facciamo solo un giro in macchina. Non c’è il grande tiglio, non c’è un centro, un luogo di raccolta. Il paese è pieno di villette, ci sono aiuole, ci sono giardini. Mi pare che manchi il soffio vitale. È difficile capire cosa anima veramente un luogo. Già il fatto che può essere attraversato completamente in macchina, entrando da una parte e uscendo dall’altra, dà un sentimento assai diverso rispetto ai paesi in cui arrivi dentro e non puoi proseguire, devi uscire dalla stessa parte in cui sei entrato. E poi c’è la forma e la storia. Sturno era una frazione, la sua gioventù è ben curata, ma la gioventù non si addice ai paesi. Hanno bisogno di avere una storia di millenni per costruire un’aura, un genius loci.

Adesso prendiamo la strada verso la valle e anche il mio umore scende verso il basso. Sono tornato al dolore mattutino. Lo squarcio felice si è chiuso. A volte un paese ben amministrato, un paese pulito, pieno di verde, non ti dà nessun conforto. Le aiuole non bastano, non bastano gli oleandri, gli ulivi. Ci vuole un simbolo, ci vuole un cuore e a Sturno non c’è. A Sturno c’è la piscina, la ludoteca, ci sono grandi marciapiedi, ma le villette in mezzo al paese è come se lo svuotassero. Bisognerebbe bandire le villette. Una buona cosa sarebbe mettere una tassa sulle case isolate.

So bene che comunque le faccende urbanistiche non sono decisive. Quello che serve è un altro sistema economico e forse un’altra teologia. Non solo è scaduto il capitalismo, è scaduto anche il nostro rapporto col sacro. E mentre scrivo questa frase mi sento penosamente confinato nel mio egoismo, penso al lato della testa che mi duole, penso che potrei sentirmi male, insomma le solite cose di cui scrivo, le solite cose che mi spingono a scrivere. Adesso Rocca e Sturno non c’entrano più niente. Non ci sono mai stato veramente, non andrò mai da nessuna parte veramente. Sento che il punto della testa che mi duole è il punto verso cui premo per uscire. Dalla bocca esce fiato, dal culo esce la merda. Quello che serve è bucare il cranio, uscire fuori da sé come un filo d’erba spunta dall’asfalto. Ho sempre vagheggiato di vivere con persone che non si accontentano della realtà, persone che pensano al mondo. Ieri ho scritto questi versi: Anche oggi niente felicità/ e soffro perché non mi rassegno/ alla realtà, sono continuamente/ proteso a rovesciarla./ Invece il mondo mi va bene,/ trovo che sia meraviglioso./ Niente da eccepire/ a parte la regola troppo stretta/ del nascere e morire.

Questa poesia oggi non mi serve a niente. Sento che la faccenda non è questa. È dentro la creatura che preme adesso sotto il lato sinistro del mio cranio. Non è questione di trovare le parole, è di trovare il buco, bucare l’osso e uscire, scappare fuori dalla vita e dunque anche fuori dalla morte. Scappare o non entrarvi mai. In ogni caso io adesso sono pura insofferenza per il fatto che non so godermi niente, a parte la mia insofferenza.

La paesologia non è una cosa che riguarda solo il fuori, la paesologia riguarda quello che sta sopra l’osso e quello che sta sotto. Io sono la punta di me stesso che scrive per bucare, per sporgersi altrove. La vita è essenzialmente una trivella. Vivere è provare a fare un foro. Provare a passare da un’altra parte perché in qualunque posto ci troviamo siamo sempre nel posto sbagliato, sia esso un paese o una città. E dobbiamo essere sempre disposti a buttare a mare il gingillo retorico con cui andiamo avanti. Può essere la rassegnazione o la lotta, può essere fare il bene o fare il male. Noi non siamo reperibili da nessuno e non siamo reperibili prima di tutto da noi stessi. I pensieri e le parole con cui arrediamo la nostra vita possono avere la massima precisione, comunque il bersaglio non viene mai centrato. Forse solo la morte coglie nel segno, nel senso che lo interrompe. Allora smettiamo di proliferare sogni e scuse, gesti di clemenza e di arroganza, solo allora siamo ridotti al niente che ci costituisce.

Quello che possiamo dire veramente è che siamo qua e che sembriamo essere qualcosa, appariamo a noi stessi e agli altri. La paesologia è una scienza fondata su un’inquietudine radicale, è un’Odissea in fondo al pozzo. Non vi riguarda, non mi riguarda veramente. Ed è questa la sua forza.

 

franco arminio

3 pensieri riguardo “Rocca e Sturno

  1. Rocca e Sturno
    Arminio gli rende visita, è un malato che si reca dal dottore e il paese diviene un immenso stetoscopio che ausculta il paesologo.
    La diagnosi anche se positivamente esposta resta una questione personale.

  2. Franco Arminio è uno che monitora, è quello che tasta il polso. Fino ad accorgersi che il paese ha il palpito irregolare.

  3. Caro Franco , la scrittura per me è un ostacolo . Cerco rifugio nel versificare condensato , nei rimasugli rimati per lasciare segni labili del mio essere estraniato . La mia anima entra in colluttazione con le parole . Faccio un uso debole e improprio . Vivo la parola da artigiano . Ogni tanto aggiungo un vuoto , elimino un pieno . Quasi tutto è preda del limite del necessario . Sono arrivato alla resa , ad una sorta di accettazione del limite . Vorrei imparare l’arte dell’anonimato , per sfuggire alle posture impostate dell’io che rende il mio scrivere un qualcosa di troppo assestato .
    La tua scrittura “ecologica” lava la mente e l’anima . Saba il poeta che , insieme a Caproni , forse più amo diceva che bisogna essere onesti innanzitutto , ma nel mio caso , spesso , mi accorgo che , dentro al mio bagaglio di scrivente , si sono insediati dei tarli dei virus che rosicano le mie esperienze sino a renderle friabili , rovinose e irrecuperabili . La tua prosa fa rima con le anime di quelli che , come me , hanno troppi sogni congestionati da un falso benessere , falso stare e restare . Acccettiamo di vivere solo per la necessità di essere accettati da chi ci vede vivere . Spesso ci si sente come attori ancora in scena quando oramai gli spettatori hanno da tempo abbandonato la platea … recitiamo solo per quelli che immaginiamo nella nostra testa . E’ un teatro cranico , E’ un teatro rintanato in una sorta di cava , in cui si dialoga con i segni lasciati sulle pietre .

    p.s.

    ho scritto questo “commento” a caldo . Forse esce fuori dal seminato , ma è quello che intendo fare . Stare troppo nel solito campo non so fino a che punto può giovarmi .

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