postfazione al libro di antonella bukovaz, AL LIMITE (Le lettere)

DI LA’ E DI QUA

Esistono luoghi, non sono molti, impastati indissolubilmente con la storia e con la geografia. Luoghi che non possono prescindere da un excursus che comprenda quelle due discipline, qui mescolate in un’ unica sostanza che ripetutamente interscambia in causa ed effetto i due ingredienti.
“Alcuni esseri si definiscono per ciò che fanno, io per il luogo in cui mi trovo”, da questa frase di Elie Wiesel si può partire per tracciare un profilo delle Valli del Natisone o Benecija nel dialetto sloveno che qui si tramanda da 1300 anni.
Intanto, dove ci troviamo: le Valli del Natisone occupano l’area montuosa che si eleva a nord e a nord-est di Cividale del Friuli, in provincia di Udine. Molte delle cime sono tagliate a metà dal confine e non è mai stato, questo, un confine qualsiasi. Per secoli, frontiera tra Repubblica di Venezia e domini d’Austria, quindi tra Regno d’Italia e Impero Asburgico e ancora tra Repubblica Italiana e Repubblica di Jugoslavia, cioè tra un cosiddetto “ovest” e un altrettanto cosiddetto “est”. Confine, poi, tra Italia e Repubblica di Slovenia e oggi luogo ancora stordito, benché non più pattugliato, da tanto secolare infrangersi di forze.
Scesero, gli Slavi, poi diversificatisi nelle varie etnie, nel VII secolo, toccando, proprio in queste valli che guardano alla pianura friulana e al mare adriatico, il punto estremo di espansione occidentale. Qui si dice “da Ponte San Quirino a Vladivostok si parla la stessa lingua”, intendendo con la stessa le diverse lingue derivanti dal ceppo slavo. E così è. Ponte San Quirino è un vero ponte, pochi metri d’asfalto a varcare il fiume Natisone. La casa che lo precede, provenendo da Cividale, è l’ultima casa del mondo latino verso oriente.
I montanari-contadini della Benecija si sono trovati nella condizione di essere filtro tra due mondi, avendo sempre avuto un ruolo di avamposto di frontiera a difesa dei latini, proprio loro: di chiara provenienza slava… Mai, tranne un breve intervallo, una storia in comune con Lubiana o con le altre città di Slovenia. Fino al 1918, tranne un breve intervallo (sempre quello), mai una storia in comune con Gorizia e Trieste, città fiori all’occhiello del nemico, di chi sta oltre il confine, di chi è meglio non fidarsi troppo. Lo stesso dicasi per tutti quegli sloveni che popolavano e ancora oggi popolano le attuali province di Gorizia e di Trieste, nelle città, sul Collio e sul Carso. Per questi ultimi, Ljubljana è sempre stata, fino al ’18 una città facente parte del medesimo Stato. Per gli sloveni delle Valli, invece, Lubiana è sempre stata una roccaforte di un mondo opposto. Il cortocircuito è presto evidente: i beneciani si ritrovano, per motivi storico-politici e di versante montano, quindi geografici, alleati di prima linea con chi parla un’altra lingua e ha una diversa cultura, di fatto con chi dovrebbe essere a rigor di logica il nemico; alleati contro chi parla la medesima lingua e ha la stessa cultura. E’ un caso si direbbe di schizofrenia antropologica: l’identità di un individuo, di una comunità, è la lingua parlata, quella con cui prega e canta ? Oppure è il suo percorso storico? O, semplicemente, è la domanda ad essere un trabocchetto sciocco, come un trabocchetto può rivelarsi la parola “identità” che troppe volte prende aspetti, mi si perdoni la sinestesia, maleodoranti ? Nel nostro caso, come dirsi Sloveno nel velenoso clima del XX secolo stando di qua, quando Sloveno è quello che sta di là, oltre il filo spinato, sempre pronto ad attentare, dicono, alla nostra quiete? Dal 1945, la stessa lingua, il nadisko, il dialetto secolare che nelle Valli del Natisone è lingua madre, diventa con l’innalzarsi della cortina di ferro per politici, strateghi e fanta-politici un possibile cavallo di Troia dentro la cui pancia si celerebbe in realtà il Comunismo con le sue mire annessionistiche. E’ così che beghine che recitano l’Oce Nas, l’unico Pater Noster conosciuto, si ritrovano, insieme al loro parroco, sospettate di filo-titismo, di svolgere cioè una attività antipatriottica. E’ così che, con le buone e con le cattive, con uno spropositato interesse dell’organizzazione Gladio su queste terre, viene richiesto ai pacifici abitanti delle montagne di tagliare la propria lingua, quella delle prime parole udite. Tra aspetti assurdi, tragici e grotteschi la musica suonerà sempre così fino al crollo della Jugoslavia, un crollo che non a tutti ha fatto piacere, soprattutto tra i suoi oppositori, privati quasi d’una propria ragion d’essere. La situazione ha mille sfumature e complessità che è impossibile qui approfondire, ciò che rimane è un “problema della lingua”, per chi l’ha difesa e per chi l’ha rifiutata, che si trasforma in un caso eccezionale, unico, come se in un bicchiere d’acqua si fossero radunate pronte allo scontro tutte le tensioni e le contraddizioni di secoli di storia, simboleggiate e concentrate in una parlata, in un dialetto che il solo nominarlo, praticarlo o studiarlo ha creato, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, asti e irremovibili sensi di colpa o di rivalsa o di rifiuto e questo per la più naturale delle espressioni umane, il parlare. Quella che richiederebbe, per non venire fraintesa, per dare forme chiare al pensiero, la più grande quiete.

Moreno Miorelli

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