una recensione a terracarne di enzo rega

FRANCO ARMINIO:

LA “PAESOLOGIA” TRA SENTIMENTO DELLA MORTE

E PREFIGURAZIONE DEL POSSIBILE

In un paese che per stanchezza Franco Arminio ha scansato in un suo vagabondaggio paesologico, a Palma Campania, è nato Vincenzio Russo, un giacobino che nella Repubblica napoletana del 1799 rappresentava l’ala più radicale e che ha teorizzato cose non lontane da quelle che prospetta lo scrittore irpino: l’esaltazione dei piccoli centri, in stretto rapporto con la campagna, contro le città e lo sviluppo della allora

nascente società industriale. E a esempio della fattibilità del suo progetto il giacobino chiamava in causa quanto di fatto già accadeva sui versanti degli Appennini, e quindi in quell’Irpinia in cui è nato e in cui continua a vivere e per la quale gira e di cui parla Arminio. Il quale ha cominciato il suo cammino da paesologo pubblicando nel 2003 Viaggio nel cratere testimoniando, da scrittore, cosa rimaneva del vecchio mondo contadino irpino, e della costellazione dei paesi nei quali si articolava quella civiltà, all’indomani del terremoto e della ricostruzione che quei luoghi aveva svisato.

Ma se quel libro rappresentava un fermo-immagine, con valore di documento epocale, l’approccio di Arminio alla sua terra era, ed è rimasto, non tanto quello di un sociologo ma appunto di uno scrittore (l’autore stesso dice che la paesologia sta tra la poesia e l’etnologia): tutt’al più si delinea un’antropologia rurale alla ricerca d’un nuovo umanesimo dal cuore antico, per dire così, tra Pasolini e Carlo Levi: e una delle pagine più belle è dedicata alla Aliano di Levi, così come un altro “pellegrinaggio” lucano riguardo la Tricarico di Rocco Scotellaro. C’è quindi innanzitutto uno scrittore, che percorre con le sue ossessioni il proprio territorio. Al di là dello stesso meridionalismo, che non è in primis la molla della scrittura di Arminio, si può tentare di caratterizzare il suo lavoro anche utilizzando coordinate molto lontane, pensando a un Walter Benjamin che si muove tra un’Infanzia berlinese e un Diario moscovita (anche la sua, in fondo, una forma di paesologia, se poi una grande città, con i suoi quartieri, non è altro che un insieme di paesi, ciascuno con una propria identità). E Benjamin ci serve, in relazione a Arminio paesologo stilista, per due aspetti, quello formale e quello contenutistico. Benjamin diceva che un testo, per reggersi, deve avere un inizio e una fine forti: l’amico Gershom Scholem osservava invece che i testi di Benjamin avevano un tasso altissimo di frasi del genere, anzi, quasi ogni passaggio era di questo tipo. Ciò mi sembra si possa dire della tesa scrittura di Arminio, che ha un alto tasso di letterarietà (per cui quasi ogni frase potrebbe essere stralciata e posta come un aforisma auto-sussistente), ma che conserva nello stesso tempo un alto grado di leggibilità. Risultato che forse non tante scritture riescono a ottenere, tenendo insieme densità e scorrevolezza. L’altro spunto benjaminiano è contenutistico, e attiene ai due libri citati dello scrittore tedesco: nel suo diario sovietico, Benjamin ammette che attraverso Mosca è Berlino che vuole conoscere, è a Berlino che fa ritorno.

È quanto accade, di nuovo, a Arminio che muove dalla sua Bisaccia, epicentro della paesologia, in Irpinia d’Oriente, quella che risente di correnti balcaniche, verso gli altri paesi irpini, campani, meridionali, e anche in centro e nord Italia, per cercare in fondo sempre il paese d’origine. Anche qui un riferimento allogeno può completare, provvisoriamente, questo quadro: se Arminio parla, già nel sottotitolo, di “paesi invisibili”, non si può fare a meno di pensare alle Città invisibili di Italo Calvino, autore peraltro diversissimo e mosso da un’istanza oggettivistica, scientifica, che non c’è in Arminio. Nel libro calviniano Marco Polo parla a Kublaj Khan delle città che ha visitato, finché Kublaj lo interrompe e gli dice che in fondo sembra che Marco gli stia parlando sempre di Venezia.

Vero climax di un libro che non è romanzo, o raccolta di racconti, quanto piuttosto saggio narrativo o narrazione saggistica – secondo una tradizione che in Campania vede all’attivo scritture, pur diverse, da Ermanno Rea (Napoli Ferrovia) a Silvio Perrella (Giùnapoli), dove gli autori sono fortemente intradiegetici e cioè presentissimi nelle loro pagine –, vero climax è dunque il testo che s’intitola Lettera dal mio paese, sorta di confronto e identificazione con il luogo d’origine con un inizio che ricorda il Passavamo sulla terra leggeri del sardo Sergio Atzeni, che rievoca l’arrivo dal medio-oriente nella sua isola del popolo dei S’ard. Scrive allora l’autore irpino, indirizzandosi una lettera a nome del suo paese (p. 288):

“Caro Arminio, io sono il tuo paese. Ora mi chiamo Bisaccia, ma prima di questo ho avuto altri nomi e c’è stato un tempo in cui non avevo nome. Stavo qui, terra al vento, terra e carne di un perenne sgomento. Vennero alcuni pastori dalle steppe dell’Eurasia. Era un giorno di giugno. Si fermarono qui in silenzio per alcuni millenni. Erano pochi e non divennero mai tanti. La vita allora era diversa, non c’erano recinti, non c’erano proprietà, non c’era ricchezza da accumulare. Raccoglievano erbe, allevavano pecore, tessevano e vendevano la lana. Adesso hanno raccolto alcuni pezzi del mio passato. Nel castello c’è una donna, che hanno chiamato principessa, sepolta con i suoi gioielli di bronzo molti secoli prima che Cristo salisse in croce”.

Se questo è, per così dire, l’antefatto, una microstoria che pure ci precede e nella quale iscriviamo la nostra più breve parabola personale, un passo successivo testimonia l’identificazione panica (che qui possiamo per assonanza collegare anche a quel panico che spesso prende l’ipocondriaco autore) tra il paese e il suo cantore (p. 290):

“Io sono il tuo paese, sono la somma delle case, sono ogni tegola, ogni scalino, sono ogni gatto, ogni luce sul comodino, sono i vecchi delle vie fredde e cupe, i giovani delle ville sperdute, sono il grano che comincia a crescere, sono la pala eolica, la quaglia, la rondine quando arriva. Sono il freddo che conosci bene e che prima ti piaceva tanto e ora ti fa paura. Ti vedo uscire incappucciato, non entri mai in un bar, non giochi a carte. Hai paura di sederti, senti che quella è una trappola, ma ti sbagli, e sbagli a stare in casa a farti una tisana, a fare colazione con biscotti e camomilla. Vai al bar, beviti un caffè senza paura, passeggia con chi capita, spreca il tuo tempo, fattelo rubare, non averne alcuna cura. Lo so che sei sempre in ansia, lo so che hai paura di morire. So che scrivi ogni giorno e che adesso non hai problemi a vedere stampati i tuoi libri. Potrei citarti ognuna delle tue poesie. Quando parli di me sembri più ispirato. Quando scrivi dei paesi le tue parole hanno leggerezza e peso. Quando parli d’altro sembra che giri a vuoto. La verità è che io sono tuo fratello, tua sposa, il tuo incubo e la tua speranza. Lo sai, c’è un piacere o un dispiacere dell’abitante verso il suo paese, ma c’è anche un piacere o un dispiacere del paese verso il suo abitante”.

Qui sta tutta l’ispirazione puramente soggettiva d’uno scrittore che ama e odio il suo paese (come il latinista Antonio La Penna, ugualmente nativo di Bisaccia: e una telefonata tra La Penna e Arminio è finita nel libro); paese che è senza dubbio una “patria poetica” (per usare l’espressione di Vittorio Sereni), che è sì locus amœnus ma nello stesso tempo, in un ambivalente e classico rapporto d’odio-amore, anche locus horridus o horribilis. Così, l’autore vuole scappare dalle mura del proprio paese e del proprio nosofobico corpo: ma nel disfacimento di tutti i paesi, svisati dall’invadenza d’una già senescente modernità, nella loro morte, coglie il senso del proprio individuale e necessitato destino: la morte dei paesi è la propria inevitabile morte. E senza dubbio la morte è il vero tema di questo libro, la vera protagonista che prende a pretesto le concrete occasioni nelle quali è dato imbattersi in questa più o meno nostrana Wanderung, che è poi l’andare precario nella vita.

Il Wanderer Arminio, questo inquieto viandante, confessa pure che attraversare i paesi è in realtà essere da essi attraversato: interno e interno s’intrecciano indissolubilmente. Nello sguardo dello scrittore s’incontrano la cosa osservata e la mente che osserva, realtà e pensiero, per cui l’Irpinia di Arminio è per l’appunto la sua Irpinia, visione nella quale altri potrebbero anche non riconoscersi. Quella di Arminio è a tutti gli effetti una fenomenologia dell’Irpinia nel senso kantiano del termine: l’Irpinia non come cosa-in-sé, ma come fenomeno, fainomenon: ciò che appare al suo osservatore, con un di più di soggettivismo rispetto all’impostazione kantiana che invece voleva sortire pure effetti d’oggettività dalla concordanza degli osservatori ecc. ecc. (ma questa è altra questione). La sentimentale scienza della paesologia (nel senso di una non-esatta scienza) sembra pure sganciarsi talvolta dal suo oggetto: l’autore confessa qua e là di non avere alcun interesse per le persone (anche se in altri passaggi indaga i volti dei vecchi, ad esempio) ma solo per i paesi, tanto che vorrebbe che si svuotassero in una sorta di biblico esodo che lasciasse solo le pietre; talaltra neanche i paesi l’interessano più, ma solo il mondo della natura, arrivando all’effetto paradosso di una paesologia senza paesi. Ciò non toglie che nell’oscillazione di questi sentimenti, l’autore vada affastellando dettagli su dettagli. La bulimia dello sguardo si traduce nell’ossessione della scrittura, nel bisogno di stenografare costantemente la realtà: il che ci porta a un altro Wanderer, a quel Peter Handke che da Chaville se ne andava a piedi a Parigi… Se i paesi sono terra  e carne, la scrittura stessa vuole dunque per Arminio farsi terra e carne, e alla fine è nulla, ma è anche l’unica modalità che nel nulla, dal nulla trattenga qualcosa. Ma, appunto come per Handke, della scrittura non si può fare a meno. Lo scrittore austriaco, che ha al suo attivo, tra i tanti altri, un titolo come La storia della matita (e pensiamo al continuo annotare di Arminio con una biro su un taccuino, piuttosto che servirsi di un moderno tablet), in un altro libro che, guarda caso, s’intitola proprio Lento ritorno a casa, scrive: “Quel che ho sempre pensato fra me non è niente: io sono soltanto quel che m’è riuscito di dirvi”. E per quanto riguarda la frontalità dello sguardo, del quale la scrittura è naturale e necessaria continuazione, sempre di Handke possiamo ricordare un altro passo tratto da La ripetizione, libro nel quale l’austriaco torna alla terra originaria dei suoi, la Slovenia, passando il confine dalla natia Carinzia  (e poco importa se qui lo sguardo è in riferimento a una donna e non a un paesaggio): “E noi stavamo uno di fronte all’altra, proprio all’altezza degli occhi. E l’altezza degli occhi era la misura della narrazione” Ci pare che qui ci stia anche l’arminiana école du regard.

Il fatto che lo sguardo proietti poi sulla cosa osservata il mondo interiore dell’osservatore non toglie che nonostante questo l’Irpinia ci sia e – anche al di là del libro d’esordio della paesologia – Arminio colga aspetti effettivi del reale (e non solo l’impressione che il reale lascia in lui), e quindi ne vada dell’essenza d’una realtà data. Così come pare molto significativa, letteraria ma realistica insieme, vera dunque, la constatazione che nella morte dei paesi non si colga solo il disfacimento dell’antico e della tradizione, ma anche, nello stesso tempo, della modernità – di quella modernità che ha attanagliato strangolandoli i paesi, quella modernità che i paesi hanno accolto in sé facendosi stravolgere – che, più che altrove, mostra il proprio fallimento. Fallimento che appare sia nei piccoli paesi irpini o lucani, sia nei “paesi giganti” dell’hinterland napoletano, dove accanto allo sfascio urbanistico il cumulo dei rifiuti e il rimbombo del traffico (quasi come nel caos apocalittico di qualche romanzo di Giuseppe Montesano) disegnano con più precisione e in modo più angosciante il quadro confuso di una fase di transizione che non si sa dove porti.

Ma lo sguardo di Arminio non sa di nostalgia d’un arcaico passato. Arminio non fa paesanologia. Arminio sa bene quali fossero le asprezze della vita nel mondo contadino e un ritorno tout-court a esso oltre che ovviamente impossibile non sarebbe neanche auspicabile. Arminio, come Rousseau, non crede che il rimpianto stato di natura sia effettivamente esistito come sorta di paradiso in terra. È in fondo esso stesso – lo stato di natura – costruzione della cultura, di una cultura che però non considera lo sviluppo storicamente realizzatosi come compimento d’umane e progressive sorti. Tutt’al più lo sguardo all’indietro serve a individuare, a rovescio, una meta ideale. La nostalgia è, per tornare a Benjamin, piuttosto nostalgia del futuro, di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. Come già in Vincenzio Russo, a inizio modernità, così per Arminio nella modernità estenuata d’oggi, la dimensione del paese, la lentezza dei ritmi rurali, un senso d’appartenenza pur nella mobilità della stessa identità che comunque muta, può darci insegnamenti e correttivi.

Perché accanto alla letteratura in queste pagine c’è, insieme, anche una vera passione civile.

 

Franco Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia, Mondadori 2011

Enzo Rega



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3 pensieri riguardo “una recensione a terracarne di enzo rega

  1. Amici cari, visto che bellissima recensione?
    Constatate quanta energia e intellettività abbiamo qui?
    Conserverò questo scritto acuto e ben tessuto tra i risvolti di copertina del libro. Amici, Enzo Rega è bravissimo!

    Enzo caro, molte grazie per questo tuo dono importante, Gaetano 🙂 onorato e contento.

  2. ALTRE RECENSIONI……………

    La lettura del nuovo libro di Franco Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia (Mondadori, 353 pagine, 18,00 euro), conferma uno dei talenti più originali della nostra letteratura. L’originalità di Arminio consiste in uno sguardo nuovo sui piccoli paesi del Sud, visti e scrutati non più nella loro valenza meridionalistica e dunque politica (come svilupparli, come arginare l’emigrazione, in che modo ripopolarli, ecc.), ma nella loro essenza reale, nella loro scoperta e quotidiana verità. L’obiettivo non è più quello di sviluppare o modernizzare realtà marginali, ma accettarli per quello che sono. Quest’attitudine di accettare la realtà per quello che è, anche nelle sue desolazioni più anguste, anche nei suoi tanti sfinimenti psicologici, Arminio la deve un poco allo scrittore Gianni Celati (con il quale collaborò ai tempi della rivista “Il Semplice”), che proprio come Arminio utilizza molto il documentario randagio (di Celati è da poco uscita la raccolta di tre documentari, Cinema all’aperto, edito da Fandango), il vagabondaggio solitario, l’amore per la marginalità, ovvero quella che Celati, con un felice neologismo, ha definito “qualsiasità”.

    L’idea è chiara: in un mondo che è alla continua ricerca di un centro illuminato e trendy (politico, culturale, mediatico, ecc.) scrittori come Celati e Arminio raccontano il massimamente trascurato, il negletto, il nascosto, ovvero la realtà totalmente deprivata di effetti speciali, di cronaca, di memorabilità. Quest’idea di guardare il mondo dal punto di vista del cane, cioè rasoterra, fraternamente, riducendo lo scrittore non più a sapiente legislatore del mondo, ma a umile e sfiancato camminatore (uno “qualsiasi”) senza certezze e, in fondo, senza speranze, è un esito avanzato della nostra letteratura, benché in apparenza “provinciale”, perché frantuma i romanzi meccanicistici o commerciali, e porta alle estreme conseguenze una morale della spogliazione, della sincerità e della nuda verità dei propri pensieri…

    Andrea di Consoli, da IL RIFORMISTA

    *

    Celati aveva compiuto il sua viaggio con Antonio Delfini e Silvio D’Arzo nello zaino, Arminio vaga tra paesi invisibili e paesi giganti in compagnia di Rocco Scotellaro, Gaetano Salvemini e Carlo Levi. Se Celati si scioglieva nella preghiera laica in cui invitava a chiamare le cose perché non svanissero definitivamente, Arminio indica una specie di nuova religione, un umanesimo delle montagne che dia sollievo al mondo. In entrambi i casi si tratta di letteratura, nient’altro che letteratura dove si coglie la vita.

    Generoso Picone, da IL MATTINO

    *

    Non vi è alcuna concessione in quest’opera di Arminio, come negli altri suoi lavori o nella sua generosa presenza pubblica, al culto del passato come mito e come rifugio. La consapevolezza che il passato, nelle terre e nei paesi che egli racconta, fosse duro per la maggior parte di coloro che ci vivevano, è chiara riga per riga. Sotto il microscopio dell’autore sono semmai la dignità del vivere, il valore della presenza e della socialità, le cose che generano mancanza. Per questo egli, forse, pone in ex ergo all’ultimo capitolo del libro la scritta: “Invio all’oceano le mie parole e per conoscenza pure alle pozzanghere”. Ecco: la connessione tra i luoghi e il mondo e la capacità di guardare i luoghi dal mondo sono, forse, l’indicazione per una vita al presente, in cui divenire e essere parte del tutto sia una possibilità effettiva per noi esseri della specie umana.

    Ugo Morelli, da IL MATTINO

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    La desolazione è la sua Musa, ma non c’è solo lei. Arminio è anche ispirato da un profondo sentimento umoristico, perché mentre si leggono le sue pagine si ride per i continui paradossi, le descrizioni di sé e degli altri. Pratica la politica dell’humor, che è un altro aspetto della sua personalità. Al termine di queste pagine, scritte con eleganza eppure ruvide, si conosce, o riconosce, il Paese che noi tutti abitiamo, le cento e mille località distese lungo lo Stivale, dove alloggiamo, o abbiamo alloggiato, perché Arminio non descrive solo l’Irpinia desolata, bensì un luogo dello spirito che conosciamo molto bene. Per questo Terracarne, che prende il nome dal suo particolare modo di essere, non è un libro localistico, bensì globale, mondiale. È un libro sui paesi senza essere paesano, sull’identità senza essere fornire alcuna identità, un libro singolare eppure universale. Ha ragione Roberto Saviano quando dice che in questo libro, nelle sue pagine, ci sono frammenti di luce. A tratti abbagliante.

    Marco Belpoliti da la Stampa

    *

    Chi è Franco Arminio? Uno che va in giro per paesi e li descrive. Certo, ma non solo. Uno scrittore? Sì, uno dei più originali delle ultime generazioni. Ma non basta. E’ soprattutto un eroe culturale. Appartiene a quella genia di scrittori che fanno qualcosa di più che scrivere: testimoniano con la loro vita e la loro presenza l’incontrovertibile. Una volta si sarebbe detto che sono degli intellettuali. Penso a Sciascia, a Pasolini. Oggi lo scrittore che supera la distinzione tra arte e vita è qualcosa di più: come Roberto Saviano, un eroe culturale dei nostri tempi, oltre che uno scrittore. Chi legge “Terracarne” (Mondadori, pp 353, §18) incontrerà un modo ancora diverso di essere eroi culturali: dimesso, paziente, laterale, diagonale. Arminio, ipocondriaco all’ultimo stadio, vive su di sé, sulla sua pelle quello che racconta dei paesi del suo Sud. Lo fa in un modo assoluto, estremo, eppure dolce e riflessivo. con ‘Terracarne’ ci ha dato un libro straordinario che sarebbe da leggere nelle scuole per far capire come gli scrittori s’impastano con la realtà e la somatizzano. Una scrittura pungente e insieme calma, affabulante e stralunata.

    Marco Belpoliti da “l’espresso”

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    «I paesi stanno sparendo, sta sparendo un mondo e da questa sparizione noi che abitiamo i paesi siamo attraversati come da una slavina silenziosa»: così racconta Franco Arminio nel suo nuovo libro Terracarne, da poco uscito per Mondadori. Lo scrittore irpino, inventore della «paesologia» («una via di mezzo tra l’etnologia e la poesia») nel libro percorre a uno a uno i molti paesi di un’Italia che ha patito in modo «troppo veloce il passaggio dalla civiltà contadina alla modernità incivile». Il suo cammino attraverso la Basilicata, i monti alle spalle del Tavoliere, l’entroterra campano tra Caserta e Salerno, l’Irpinia e il Cilento, è in parte un viaggio lirico, personale, anche segnato dagli attacchi di panico che lo sorprendono, dove però il personale è la condizione «di chi dalla carne soffre per la sua terra e dalla terra soffre per la sua carne», quindi potenzialmente comune. Percorrendo sentieri impervi e annotando tutti gli abbandoni, gli obbrobri del cemento, delle speculazioni e dell’interesse, dove la parola «povertà» ha assunto un significato deteriore («la desolazione è una cosa nuova per i paesi. Prima c’era la miseria»), l’intento di Arminio non è l’elegia («il problema dei paesi non è la loro morte, è la vita che li abbiamo costretti a vivere») o il compianto di ciò che non c’è più («non si fa manutenzione dell’agonia»), bensì la speranza di «un altro Sud, fatto di persone che cominciano a scambiarsi abbracci veri e parole intense, a spezzare il pane comune dello scrupolo e dell’utopia».

    Ida Bozzi, La lettura, inserto letterario del corriere della sera

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    Franco Arminio piace a tutti, mette d’accordo tutti, e non a caso è approdato, dopo un lungo peregrinare per editori di ricerca come Sironi, Le lettere, Nottetempo, prima a Laterza e adesso alle “strade blu” di Mondadori.

    Daniele Giglioli, Alias, inserto de il manifesto

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    Il libro, nella sua indubbia bellezza estetica, ha una funzione fondamentale, è una frustata, un pugno nello stomaco, una scossa tellurica, uno shock, cui tutti dobbiamo sottoporci.

    Paolo Saggese, ottopagine

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    In ogni paese c’è un mondo intero. Sol che si abbiano gli occhi e il cuore per vederlo. Arminio, con la sua prosa poetica, stralunata, intensa e vibrante anche quando la vena è l’ironia, insegna a vedere.

    Francesco Durante, Il corriere del mezzogiorno

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    In ogni cosa che scrive o fa, lui passa, – c’è. C’è tutto, con la sua carne e quella della sua e nostra terra (Terracarne, appena uscito da Mondadori è il suo ultimo titolo). E c’è per noi. Ci riguarda come riguarda lui. E noi sentiamo questa afferenza: questo affetto e questa folata. Questo vento, forte come quello dell’Irpinia d’Oriente.

    Luigi Grazioli, da DOPPIOZERO

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    Viene voglia di prendere la macchina e andare sulle tracce dell’instancabile paesologo, come si definisce lui stesso, entrare in ogni piccolo paese raccontato in questo bel libro.

    Matteo Nucci, da IL VENERDì DI REPUBBLICA

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    Centellinando le pagine di Terracarne , se ne ricava come un sapore di buone vecchie cose fatte a mano, con la maestria degli artigiani.

    Salvatore D’Angelo, Comunità provvisorie

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    Al di là dello stesso meridionalismo, che non è in primis la molla della scrittura di Arminio, si può tentare di caratterizzare il suo lavoro anche utilizzando coordinate molto lontane, pensando a un Walter Benjamin che si muove tra un’Infanzia berlinese e un Diario moscovita (anche la sua, in fondo, una forma di paesologia, se poi una grande città, con i suoi quartieri, non è altro che un insieme di paesi, ciascuno con una propria identità). E Benjamin ci serve, in relazione a Arminio paesologo stilista, per due aspetti, quello formale e quello contenutistico. Benjamin diceva che un testo, per reggersi, deve avere un inizio e una fine forti: l’amico Gershom Scholem osservava invece che i testi di Benjamin avevano un tasso altissimo di frasi del genere, anzi, quasi ogni passaggio era di questo tipo. Ciò mi sembra si possa dire della tesa scrittura di Arminio, che ha un alto tasso di letterarietà (per cui quasi ogni frase potrebbe essere stralciata e posta come un aforisma auto-sussistente), ma che conserva nello stesso tempo un alto grado di leggibilità. Risultato che forse non tante scritture riescono a ottenere, tenendo insieme densità e scorrevolezza.

    Enzo Rega, da Comunità provvisorie

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    Sono molti anni che esco quasi ogni giorno e vado in giro in posti dove non va più nessuno, posti a cui non crede più nessuno. Vado a vedere come stanno le cose, vado a vederle da vicino. La mia scrittura è un modo per uscire da me o per convivere con il dolore, una scrittura che si forma intorno a ciò che ho dentro e al modo in cui questo mio “dentro” si incontra, si incrocia con il “fuori”. Un scrittura fatta con tutto il corpo, un corpo a corpo col paese. Nessun paese è un luogo inerte. Ognuno ha un suo umore. Non ce ne sono due uguali. L’atmosfera cambia da un posto all’altro. Ogni volta che entro in un paese nuovo, provo un’emozione vera. Bisogna avere un occhio trasversale per superare ciò che, a prima vista, sembra uguale. È con quest’occhio e con questo cuore che tutto, piano piano, diviene interessante, unico. Un’osservazione partecipe diventa un’osservazione terapeutica. In fondo non posso nascondere che per me la paesologia è una terapia. Uscire dalle case in cui per tanto tempo ci siamo rintanati, pensando di stare al sicuro, uscire dalla baracca mefitica del proprio io. La paesologia è una strada sul crinale, a metà tra una nuova forma di impegno e una cerimonia religiosa, a metà tra poesia ed etnologia, sempre però ben lontani dalla paesanologia e dalle sue sagre.Se c’è una sagra che mi interessa è quella del futuro. Questa disciplina, allo stesso tempo inesistente e indispensabile, sta tutta nell’attenzione ai paesi come sono adesso. Il mio è un dolore che combatte contro la distrazione e la cecità. I paesi non sono morti, ci sono ancora, sono malati, esattamente come è malato tutto il pianeta. C’è una parola che può riassumere tutto: desolazione. Si tratta di una malattia nuova per i paesi. Prima c’era la miseria, c’era il mondo mirabilmente descritto da Carlo Levi, c’era la lontananza e l’oppressione, c’era la comunità dei poveri, degli umili. Siamo passati dalla civiltà contadina, a volte crudele, perfino spietata, a questa cosa oscena che chiamo modernità incivile.Il mio ultimo libro, più degli altri, esprime la scelta di porre una serena obiezione al mondo. La desolazione per me non è un epilogo, ma un punto di partenza per un nuovo modo di abitare la terra, una nuova postura. Ciò che io invoco è una nuova etica, un umanesimo delle montagne. La mia visione parte dallo sgomento di stare in un pianeta pieno di merci, un pianeta in cui non sappiamo più farci compagnia e nel quale ognuno in cuor suo sembra aver dato addio a tutti gli altri. In Terracarne parlo di autismo corale, parlo della nostra incapacità di passare il tempo in compagnia e in lietezza. È qui la radice di tutta la mia scrittura. La posta in gioco è tollerare l’incertezza di ogni cosa. La paesologia è una “scienza” arresa, non è una “scienza” facile. Scrivo a oltranza di luoghi che perdono abitanti e di abitanti che hanno perso i loro luoghi. È un invito ad abbandonare le sicurezze dell’uomo attuale, a scendere in basso, ad avvicinarsi alla terra, al mondo per come è e per come potrebbe essere nostro malgrado. È un atto di ascolto riverente, è inginocchiarsi davanti all’altare del vento e dell’aria, della luce, delle pietre. La paesologia è prendere i propri occhi e modificarli, è svelare la bellezza di ciò che gli altri ci fanno credere brutto, insignificante. Un punto di vista che parte dall’interno, dai nostri organi, dai nostri sensi e che ci lega a ciò che vive, che sta nel mondo. Non è più il tempo del delirio per l’umanità, non è più il tempo per le smanie capricciose dell’ “io”. Bisogna uscire, andar fuori, imparare a usare il corpo come un’astronave, apprendere da tutto ciò che è piccolo, inerme, silenzioso, vinto. Pregare per la sua salvezza, che è poi anche la nostra. Una piccola apocalisse silenziosa è in corso sotto i nostri occhi. Possiamo fingere di non vederla, o possiamo chinarci e prestare nuova attenzione, donarle lo sguardo, darle una voce. I paesi non sono un problema, sono una possibile soluzione. Non sono un esperto di faccende economiche, la mia ossessione è la scrittura. La mia è un’esperienza di dedizione assoluta alla scrittura. Inutile lamentarsi per la perdita di attenzione nei confronti della letteratura. L’unica cosa che uno scrittore può fare è scrivere libri veri, onesti, infiammati dal coraggio, costruiti con puntiglio e rigore.La paesologia non è un’evasione dalla letteratura. Cerca lettori combattenti. Per stare al mondo senza ammalarsi di noia e di ingordigia, ci vuole uno slancio disumano, ci dobbiamo convincere che siamo terracarne. In ciò che scrivo l’indagine su me stesso è intrecciata all’osservazione di un lampione, di una macchina parcheggiata, di una vecchia che cammina per strada. I deliri della mente e quelli delle betoniere, tutto per me è oggetto della paesologia. C’è bisogno di includere, intrecciare. Viviamo in un’epoca irrimediabilmente mescolata, a cui è inutile portare il broncio. La realtà, a dispetto di ogni oltraggio, rimane colossale e merita di essere raccontata.

    Franco Arminio da LA REPUBBLICA

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