Pordenonelegge Dedalus

Metto qui un’intervista a Franco Arminio. Vi segnalo che l’ultima opera di Franco è in vetta alla classifica Pordenonelegge Dedalus. Sarebbe bello se gli amici divulgassero questa cosa e l’esistenza del blog paesologico.

http://dedalus.pordenonelegge.it/

22 marzo 2011
Intervista a Franco Arminio

a cura di Irene Mordiglia

C’è una sua poesia, La salute feroce, i cui primi cinque versi sarebbero un’introduzione perfetta a Cartoline dai morti: “ci vuole una salute feroce/per stare tutto il giorno davanti alla morte./Chiedo ad altri di avere la stessa/salute e mettersi il dinosauro sulle spalle/e venire con me nella palude del mondo.” Nella nota che chiude le Cartoline  lei scrive, invece, di aver composto questi 125 racconti di morte in prima persona dopo i «piccoli attacchi di panico» che continuano a farle visita. Da dove nasce dunque la necessità di dare una voce ai morti, non restituendogliela, perché non si può, ma inventandola?

Nasce da 25 anni di panico. Lo so che è pazzesco, ma credo che dal primo attacco, il 29 maggio del 1986, il panico non mi abbia mai abbandonato. Speso vive in me in forma diluita, ma la sua orma non mi ha mai lasciato, è l’orma del dinosauro. Sono una creatura impaurita, in questo somiglio molto agli animali, non esistono animali tranquilli, ma sono anche una creatura indomita e col passare degli anni diventa sempre più insofferente ad ogni forma di moderazione. Siccome non ho avuto il coraggio di affidarmi ai medici, mi sono affidato alla scrittura. Un esercizio a oltranza, una terapia a dosaggi altissimi. Praticamente fin qui ho pubblicato neppure il dieci per cento delle cose che ho scritto. Questa percentuale vale per la prosa. In poesia siamo all’otto per mille….

I testi delle cartoline sono brevissimi, in alcuni casi anche di una riga sola, eppure sono in grado di restituire con forza il senso (o il non senso) di intere esistenze. Che tipo di lavoro sulla parola ha effettuato per raggiungere questa breve densità?

In prosa ho sempre lavorato sulla forma breve e poi ho sempre praticato la via della poesia. Non c’è stato bisogno di fare un lavoro di sottrazione, le cartoline quasi sempre sono nate nella forma che hanno adesso. In qualche caso ho lavorato più che altro per evitare forme leziose, volevo che i morti parlassero una lingua semplice, essenziale. Credo di averla trovata questa forma semplice e credo sia il risultato più importante del libro. Un esito che avevo raggiunto anche nel precedente libro, Nevica e ho le prove. Lì però avevo osato mischiare questa forma breve con altre soluzioni formali, un libro a strati, dal diario intimo agli elenchi finali, ma l’operazione non credo sia stata colta. Oggi c’è una pericolosa allergia alle operazioni intellettuali più ardite. Quella che una volta si chiama letteratura d’avanguardia o letteratura sperimentale per me rimane l’unica letteratura possibile.

Il suo è anche un esercizio di ironia e il lettore si trova più volte a ridere in faccia al morto che parla. E può farlo perché la morte che gli viene raccontata non è mai la propria, ma sempre quella di un altro. È dunque totalmente impossibile per chi legge queste Cartoline mettere in atto un meccanismo di immedesimazione: io che leggo, e proprio finché leggo, sono tutt’altro rispetto a te che mi parli della tua morte. Ma poi, chiuso il libro, l’ironia scompare e rimane un senso di inquieto timore: nessuna di quelle morti è la mia e dunque ciascuna di esse potrebbe esserlo, qui e ora. Quando ha deciso di pubblicare le Cartoline ha pensato alla reazione che avrebbe provocato nei lettori? Si è trovato a fantasticare su questa reazione e ha mai sentito il bisogno di chiedere a qualcuno «tu cosa hai provato?», come in un estremo radicale confronto?

Non ho mai pensato alle reazioni dei lettori. Penso che un libro del genere possa avere reazioni molto diverse anche nella stessa persona, dipende dal momento in cui si legge. Comunque l’esistenza di questo libro per me è un motivo di orgoglio. Oso pensare che è un libro unico e destinato a rimanere tale: neppure per me sarebbe facile scrivere un libro simile a questo. Viene da un momento della mia vita in cui mi sentivo fuori dalla vita. Adesso pare che faticosamente si profili un’altra storia e forse sta nascendo un’altra lingua.
Che rapporto c’è stato, nella sua vita, tra la creazione della parola poetica e la morte? E che rapporto pensa che ci possa essere tra poesia e morte per chi di poesia è solo lettore e non autore?

Direi che tutta la mia scrittura ruota su questo rapporto. Ho scritto un intero libro, Circo dell’ipocondria, e perfino i miei reportage sono sempre appoggiati con un orecchio ai luoghi e uno alla morte. Ovviamente la scrittura nasce anche da una spinta amorosa, che a sua volta nasce però da un certo rapporto con la morte. Insomma, per scrivere ci vuole comunque una dose di lietezza, sarà pure disperata, ma sempre di lietezza si tratta. Non si dà scrittura con pose da obitorio, non si dà scrittura se non ci si accalora nel mondo e per il mondo.
Alla seconda parte della domanda non credo di saper rispondere. Forse il lettore ha lo stesso rapporto con la morte che ha lo scrittore. Forse chi legge poesia si sente minacciato e cerca non un riparo, ma una ragione di questa minaccia. È come se la letteratura fosse un continuo cercare di farsi una ragione del fatto che si muore e questa ragione non ci convince mai abbastanza. Siamo chiamati ancora a scrivere e a leggere.

Pavese nel Mestiere di vivere scrive: «la letteratura è la difesa contro le offese della vita». Ciò da cui dobbiamo dunque difenderci è dunque la vita più che la morte? Certe malinconiche Cartoline sembrerebbero suggerircelo.

Concordo con Pavese  sul doversi difendere dalle offese che la vita ci porta quotidianamente. In fondo, ogni singolo attimo di bene ci viene fatto pagare a prezzi altissimi da quella che definiamo esistenza. La morte, tuttavia, non è un’ offesa, né una liberazione dagli affanni. Non è nulla, e non ha una funzione consolatoria, in senso religioso. La morte è semplicemente la fine di questo affannoso girare in tondo che mi pare sia diventata la vita degli uomini. Nelle esistenze che ho descritto forse c’è un elemento di sacralità che si coglie a una lettura più attenta. Questo elemento sta nei singoli, minimi gesti che compiamo ogni giorno, gesti che andrebbero ponderati e valutati meglio, gesti unici, se guardati come gli ultimi che facciamo. E, perciò, sacri.

2 pensieri riguardo “Pordenonelegge Dedalus

  1. 20 dicembre ’11, ore 12:00 zero gradi. Sono andato a pattinare sull’altopiano. Ho percorso venti chilometri. Nei campi c’era la neve di ieri ma l’asfalto era pulito. Un cielo sereno e un vento da nord-ovest hanno impastato una buona luce, ma non quella dei giorni migliori. È tempo di natale ma l’altopiano corre in avanti. Qui ogni strada è una via crucis. C’erano monconi di croci in bilico nei campi, le piantano per inchiodare il vento. Ai piedi di queste croci rotanti versa lacrime solo il paesaggio, e sono lacrime fredde, non sciolgono la neve e neppure gli animi.

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