Homo Radix IV tappa: nel padovano a caccia di sequie al Castello del Catajo

Ci sono giorni in cui certi disegni, certe traiettorie, si snudano. In qualità di esseri umani ci si veste sempre da buoni, da individui capaci di ascoltare gli altri individui, di dare il consiglio giusto, di fare la scelta opportuna, di mediare, se occorre. Eppure talvolta sento che c’è una parte di me che non conosco e non so riconoscere: è lì, opera all’oscuro di tutti i miei progetti, si estende su deserti e antartidi che talvolta intravedo ma mai direttamente. Cammino e attraverso il paesaggio, costruisco le mie cattedrali di stuzzicadenti, innalzo boschi e foreste, tocco, misuro, salto e capriolo, respiro e mi illumino quasi fino a staccarmi da terra e iniziare a volare. E poi improvvisamente esplode. Salta fuori. Sposta tutto il resto e si fa spazio. Questa mano nera sbuca fuori dal sangue e prende il timone. C’è qualcosa di ostile dentro di me, come quando cala la notte alle cinque del pomeriggio, in inverno, e il silenzio si fa materico, il buio che invece l’estate annienta, spazza via. Allo specchio non mi riconosco più, eppure sono sempre io, il medesimo uomo a piedi nudi, il medesimo mancato Dio di me stesso.

In questo non eccelso stato d’animo approdo nel Veneto. Autostrada, uscita Padova Ovest, strada statale 16 direzione sud. Per cercare di strapparmi via di mente questa idiota angoscia esistenziale cerco di “pensare come una montagna”. Uno scrittore tanto amato in America quanto sconosciuto qui da noi, Aldo Leopold (1888-1848), l’uomo dei cinque otto, iniziò a insegnare all’università dello stato del Wisconsin promuovendo la tutela degli animali predatori, come ricorda Anna Re nel suo libro Americana Verde (Edizioni Ambiente), di modo da mantenere stabili gli ecosistemi. Mi viene subito da pensare ai lupi che negli ultimi anni hanno ricominciato a uccidere agnelli e mucche nelle vallate cuneesi, con grande scandalo sui giornali. Gli sparerebbero, in Piemonte, oggi, al buon Leopold. La sua opera A Sand County Almanac, venne pubblicata nel 1949, da noi è stata tradotta ma è uscita per uno dei tanti editori invisibili che il mercato editoriale ha ben presto emarginato. Uno dei pensieri portanti della sensibilità di questo scrittore si può concretizzare nel motto “pensare come una montagna”. Pensare alle creature, al mondo, all’ecosistema, non alla singola specie. Così mi ritrovo ad abitare un pensiero a distanza di tempo e di spazio, vent’anni dopo. Nell’impaziente immaginazione del ragazzino che ero a sedici anni, litigando con i consigli di mio padre, un corpo che correva verso l’alto, e l’intero mondo da scoprire, germogliava un pensiero che ora rivivo e rivesto, in questa minuscola bolla di parole, idee e verità in corso di verifica, perennemente, bisticciando ma quasi mai sul serio con l’amore, la passione, in un fisico che stento a riconoscermi. La macchina del tempo esiste e il Signore delle Creature l’ha cucita dentro di noi.

Ai piedi dei Colli Euganei sorge un Castello dalla lunghissima storia. Uno smisurato castello di trecentocinquanta stanze è stato eretto, nel XV secolo, per volontà di Pio Enea I Obizzi, fra il 1570 ed il 1578. Il capostipite era un capitano di ventura approdato in Italia nel 1007. Successivamente, a inizio Ottocento, la proprietà passa agli Asburgo Este. Il parco, vasto ventinove ettari, è ricco di alberi secolari fra cui spiccano magnolie e sequoie. Un documento del sito internet è dedicato al giardino, al parco e alle diverse specie di alberi presenti. Figurano sia esemplari di sempervirens che di sequoia gigante. Una notazione è molto interessante: «Nei giardini veneti i due tipi di sequoia soffrono a causa dei terreni troppo basici e non hanno vita lunghissima».

E’ noto che il padovano è terra di sontuose residenze patrizie, le ville del Palladio ne sono un emblema e una sintesi. In queste residenze sono presenti parchi che ospitano alberi notevoli. Il castello è preannunciato dalle chiome scheletriche di alcuni platani, fino ai due dai tronchi colonnari che se ne stanno accanto al ponticello d’ingresso. L’edificio è squadrato, merlettato, alto quattro piani, circondato da una vegetazione che a tratti si fa fitta e composta di tassi, catalpe, magnolie, cipressi, querce. Alcuni cedri del Libano dietro l’edificio. Il fossato, immancabile. Davanti al ponticello scorre la ciclovia dei Colli Euganei. Il platano sulla sinistra è capitozzato, quello sulla destra ha un tronco possente che si divarica a circa tre metri e mezzo in tre branche primarie.

Incontro la proprietaria, Maria Dalla Francesca, che mi accompagna rapida alla sequoie. Una donna coriacea e svelta. Il parco è stato iniziato nel corso del Cinquecento e poi arricchito prevalentemente dagli Asburgo nel corso dell’Ottocento. Due splendide magnolie ultrasecolari (Magnolia glandiflora) salutano l’ingresso al parco, con tronchi monumentali. Il sentiero che vi scorre nel mezzo conduce ad un prato al cui centro s’innalza la sequoia gigante. Non si hanno documenti, si sa soltanto che è stata messa a dimora nel corso dell’Ottocento, seconda parte del secolo. Il tronco è solitario, sgombro da ramificazioni fino ai dieci metri, muschi in direzione nord. A circa otto metri si nota una torsione del fusto, una depressione dovuta, credo, ad un danno giovanile, che probabilmente l’albero ha in seguito recuperato, crescendo. La chioma è sviluppata soltanto nella parte superiore. E’ alta circa diciotto metri. Produce coni piccolissimi, fino a quattro / cinque centimetri di lunghezza. Dietro ci sono carpini, tassi ed una sequoia della California, decisamente più piccola, con un tronco che si biforca. La proprietaria mi dice che questa seconda sequoia ha spesso sofferto di seccaggini. Misuro il tronco: (150 x 3) + 70 = 520 cm, a petto d’uomo. Alla base invece si allarga a (150 x 5) + 50 ovvero otto metri di circonferenza.

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