SABATO

di Eliana Petrizzi

falenaTardo pomeriggio. Cielo fermo, aria grigia. Poca gente, soprattutto straniere. Negozi chiusi. Molti falliti, sostituiti da franchising di abbigliamento, punti scommesse e compro oro. Nelle vetrine, i manichini già in abiti invernali. Pantaloni scuri, maglioni neri, gilet grigi: un manipolo di miserabili davanti a un camino spento. Al lungomare resto poco perché, cercando una panchina, vedo topi che scappano lungo gli schienali e nell’erba. A nord, temporale in arrivo. Tuoni col rumore di mobili spostati da un piano superiore. Lungo le strade, cespugli di palazzi, con frutti arruffati e spine.  Sul corso, una ragazza chiarissima cammina ad occhi chiusi. Vecchi abbracciati ad ucraine. Coppie infelici e serene, giovani sconclusionati, sfaldati nella distanza come paesaggi nell’afa. Ciminiere ammutolite, un fumo snello che sale, lentezza che s’addensa, un calmo spargimento di cose che se ne vanno. Io, con la miseria di amare solo ciò che mi rassomiglia, o che vorrei diventare. Visita di una breve pioggia che non disturba. Il disegno di tabelle e strade: una curatissima grafia da filistei. Di sera, alcuni negozi aperti. Dentro, vecchie rifatte male: catastrofi più visibili nella ricostruzione che nelle macerie. Donna con faccia da madre di figli maschi mi parla con voce rotta da bambola. Folle di malati sempre accesi amano il brutto, e il brutto li ama. Salutare l’interlocutore accidentale, che col suo essere minuscolo si fa presto ingombrante.
In piazza, clamore per l’arrivo dell’urna del Santo. Tra due file di gente, un furgone di quelli per le spedizioni. Fermo, dai portelloni aperti scende una bara di cristallo con la salma del Santo. Di suo, solo un braccio e un osso. Il resto, ricostruito di cera: le mani giunte, il viso lilla che hanno i morti pronti al marcio. Tripudio di coriandoli, applausi necrofili. Me ne vado con la spensieratezza che si tiene nelle file di dietro, appresso al funerale.
Torno a casa. Niente traffico. Solo aria calda verso i paesi in pianura. Bagliori di festa dietro la montagna, la pioggia che arriva in gocce lente e carnose. Un piccolo rudere viene a ricordarmi che cercare riparo è il senso semplice di ogni vita. Arrivata in paese, mi fermo al centro della via, dove non passano auto, persone, cani. Guardo a lungo la mia casa e mi chiedo se ci abito proprio io, se quella è veramente la mia casa.
Luci basse, voci tenute calme, finestre aperte da cui ogni sera fuggono a capelli sciolti le miserie dell’amore.

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Pubblicato da david ardito

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