Riflessioni sull’opera di Franco Arminio e sul libro ‘Geografia commossa dell’Italia interna’.

geografia commossa
di Alberto Barone

Non è facile parlare di un autore come Franco Arminio e non per specifiche difficoltà: la sua è una scrittura chiara, scorrevole e sintetica, istintiva, immediata, non ricercata né filtrata, dotata di una propria musicalità: lenta aggressiva veloce scattante ritmata risposante irritante. Personalmente poi, è garbato gentile diretto; non si nasconde: nelle sue pagine lo ritrovi per quello che è: ipocondriaco umorale incostante ironico insofferente caustico sincero. Nonostante i toni forti, a volte sconsolati non si lascia vincere: è un combattente.

Eppure: eppure non è semplice ricondurlo ad una sintesi. Non basta la paesologia, c’è sempre dell’altro. Quando sembra che hai trovato il capo ti accorgi che potrebbero esserci nuovi e differenti punti da cui partire.

Arminio si definisce pescatore, pescatore di montagna. Un pescatore con le proprie postazioni fisse: la panchina la strada il bar l’ufficio anagrafe i gradini di una chiesa. Pescatore di una pesca che avviene su più livelli, all’interno della disciplina ma anche all’interno di se stesso – come un VIAGGIO.

Nelle sue opere il cosa ed il come – ciò che dice e la forma che il ‘cosa’ assume – non sono scindibili: per sintonizzarti con lui la cosa migliore è leggerlo, senza mediazioni.

Se è vero che scrittura e lettura sono momenti di reciproca solitudine, Arminio fa di tutto per superare questa condizione utilizzando una interlocuzione diretta, quasi ti avesse di fronte ignoto lettore. Non ti vuole indifferente apatico; ti scuote esorta incita. Ti costringe ad aprire gli occhi e a tenerli tali, a valutare la realtà nella sua durezza e sfuggire agli stereotipi, ai cliché. A vedere con gli occhi ma soprattutto con il pensiero.

E’ arrivato il momento di rimettersi in cammino…

Camminare per guardare, camminare perché percepire è più importante che giudicare …

Non bisogna camminare per allungarsi un poco la vita, ma per renderla più intensa.

E’ tempo di uscire, di sciamare all’esterno…

Non rimanete fermi come uno straccio sotto il ferro da stiro

(citazione dal libro Geografia commossa … pag.35)

Ed ancora:

La mia scrittura non ha il rigore della scienza, non vuole e non può essere attendibile.

Il primato della percezione sul concetto, del particolare sull’astrazione.

(dal libro – Geografia commossa … pag.3)

Ed allora il criterio sia quello del procedimento non analitico né razionale ma emotivo sentimentale percettivo, ovvero quello proprio delle arti figurative. La sua opera va colta di getto, per apprezzarne a pieno il senso della immediatezza.

Se dovessi definirla direi che quella di Arminio è una scrittura che aspira all’immagine, sempre diversa dinamica che non si appaga di se stessa, non narcisistica eppure in perenne incessante ricerca: ed è per questo che non è semplice seguirlo, quasi ti stanca come una camminata in montagna, ma ti appaga.

A queste suggestioni concorrono anche i riferimenti letterari che conservano la freschezza delle corrispondenze non ricercate, dei contorni indefiniti e vaghi, delle imprecisioni e dei rimandi, della libertà di porsi come tali, senza ambizioni sistematiche o definitive.

Nel rivendicare il primato della percezione sul giudizio, anteponendo la costruzione emozionale rispetto a quella logico-razionale, la sintesi complessa alla discreta analisi puntuale, il soggettivo all’oggettivo coglie lo spirito di un processo avvenuto nel tempo della storia e che permane, ovvero la sintonia tra la coscienza umana e la immediatezza delle immagini; solo in seguito si è avuta la costruzione di un alfabeto trasmissibile.

Visto da un altro punto di vista l’alfabeto – e la lingua che ne consegue – è un valore che possiede una sua forza identitaria, ma in quanto tale è anche un limite, un confine di cui si fa figura la Babele biblica. Invece uno degli obiettivi della sua opera è proprio nel varcarlo quel confine, e le porte, comprese quelle della comunicazione. Da qui il ricorso alle forme della cinematografia e della fotografia, nella coscienza che le immagini – come le note di una musica – posseggono una intrinseca, autonoma capacità comunicativa, senza il ricorso ad un codice condiviso, appunto un alfabeto.

Il riferimento alla componente musicale non è casuale ma si tratta di una musicalità che devi creare tu stesso ‘lettore agonistico’.

C’è un capitolo – Il collegio dei docenti nel libro ‘Nevica ho le prove’ – nel quale non fa alcun uso della punteggiatura; le parole si susseguono in un incessante periodo lungo tre pagine: per leggerlo devi impegnarti, stabilire una connessione con il testo, introdurre appunto una musicalità fatta di pause ed accelerazioni di toni acuti e di silenzi, di un ritmo che appartiene allo specifico della musica.

Arminio si definisce un paesologo ma con precisazione: Non un paesanologo.

Egli non è nostalgico né un fautore del localismo, rifiuta folclore vernacolo colore locale, tutto ciò che fa paese o paesano nel gergo comune; invita a guardare oltre le apparenze. Nella lettura dei luoghi è rigoroso distaccato: non mancano ironia e tristezza, sconforto e disperazione, speranza e affetti – e poi lucidità, quella stessa lucidità che egli applica a se stesso per capire. Combatte l’inerzia e l’inedia, mali antichi del meridione, il fatalismo che trova sfogo nelle chiacchiere denigratorie fini a se stesse, incapaci di vedere ed apprezzare il buono che circonda. Nonostante l’amore che nutre per questi paesi non risparmia severità verso i suoi conterranei e i loro amministratori e quelle perverse relazioni di connivenza, di piccole convenienze; spesso sono essi stessi gli autori delle loro miserie spirituali, fatte di rancore piccole invidie dileggio maldicenza.

Ma da buon combattente non si perde d’animo.

Credo che uno dei mali del sud sia la incapacità di ammirazione verso i luoghi e le persone vicine.

Il sud si è fatto convincere che il buono è altrove.

E alla fine tutto il mio lavoro è nel provare a scalfire quest’abito di gesso che portiamo da millenni e che dopo l’unità d’Italia è diventato un abito di piombo.

Tu hai un peso che io non ho. Puoi rompere insieme ad altri ciò che io, da solo o assieme ad altri, ho solo scalfito. Vai avanti continua a suonare la tua rivoluzione.

(dal libro – Geografia commossa … pag.31)

Non esiste un paese grande o piccolo. Questi sono attributi di tipo quantitativo, il suo paese è un ente di qualità che vive della unità di case e di persone, di ambiti privati e spazi pubblici, di storie comuni e vicende personali. Un paese così non può essere isolato, è parte del mondo; è avvolto nel paesaggio, come nella lingua in cui la parola paese è interamente contenuta in quella di paesaggio. Arminio dice di più: un paese non muore mai, seppure abbandonato dai suoi abitanti – Craco – è riconquistato dalle piante, dagli insetti, dagli uccelli, dai piccoli animali, dal vento, diventa il museo dell’aria.

A Pacentro in Abruzzo, questa estate quattro donne erano sulla strada, di fronte alle proprie case lavoravano a maglia e cantavano a squarciagola: lo spazio urbano coincideva con lo spazio della loro esistenza. Non c’è architettura pensata su un tavolo da disegno o generata da un computer che possa fornire tutto questo.

Quando lo spazio domestico si porta all’esterno e lo invade significa che vi è una integrazione reale tra la vita dell’individuo e quella della comunità; significa che quella porta non è un limite difensivo ma un diaframma provvisorio e la soglia ritrova la sua simbolica sacralità, significa che le strade sono una estensione della propria casa.

Ora, se tutto questo è, come non condividere il giudizio severo sulla ricostruzione delle zone terremotate. E come non dargli ragione: ai terremotati sono state restituite le case ma tolto il paese!

Nonostante l’assonanza con altri termini – psicologia geologia biologia sociologia etc – la Paesologia non è una scienza; non possiede un suo statuto né una struttura metodologica che la renda trasmissibile; con queste discipline ha in comune forse lo spirito di osservazione, ma non altro. E’ umorale, provvisoria, non permanente, contiene la capacità di contraddire sé stessa, vive di soggetti.

Guardo certe case e le vorrei accarezzare; accarezzo le porte di legno, quelle con le vernici di una volta, bisogna conservarle queste porte, sarebbe bello se qualcuno da qualche parte volesse salvarle, raccoglierle, fare un museo delle porte; quelle col buco per fare entrare la gatta sono ormai rarissime.

(dal libro ‘Vento forte tra Lacedonia e Candela’ pag.12 )

La porta ha una sua condizione fenomenologica, una sua struttura valoriale quale elemento doppio: vista dall’esterno raffigura il dentro, il sicuro, il certo; di contro dall’interno il fuori, l’ignoto, l’incerto.

Una doppia valenza che appartiene a tutte le porte, siano esse la porta di casa la porta del palazzo la porta della città.

E se dalla terra ci spostiamo al cielo anche lì troviamo altre porte. Nella mitologia greca i due solstizi erano chiamati ‘porte’: porta degli dèi quello invernale, porta degli uomini quello estivo.

A Roma Giano apre e chiude le porte (ianuae) del ciclo annuale, passato e futuro, avanti e indietro, interno e esterno, esprimendo nettamente quel preciso momento di passaggio in cui passato e futuro coesistono nel presente.

Dunque dio del tempo, un dio del sole che tramonta e risorge.

Per i cristiani tutto questo, la soglia, l’intraprendere un cammino finalizzato alla salvezza sono assunti nella figura del Cristo ed il sole nascente diventa il simbolo del Cristo Bambino la cui venuta al mondo si celebra nel Natale posto in prossimità di quel solstizio d’inverno, porta degli dei.

Dal Vangelo di Giovanni: Io sono la porta, chi entrerà attraverso di me sarà salvo.

Ancora una volta, se tutto questo è, come rimanere indifferenti alla rimozione dei vecchi portoni e la loro sostituzione con orribili portoncini in alluminio anodizzato simbolo di una modernità scaduta a consumo senza valori né rispetto.

Oggi non ho fotografato volti ma porte, il confine brutale tra le porte di alluminio anodizzato e quelle di legno.

L’alluminio è il corpo pubblico, quello esposto.

Il legno con il lucchetto, con i buchi e con i tarli, è l’anima.

Fare paesologia significa non rimanere con lo sguardo sulle porte.

Trovato un confine, subito ne attraversi un altro.

(dal libro – Geografia commossa … pag.5)

Vi è dunque la necessità di un recupero del sacro, ma quello di Arminio non è un sacro verticale terra/cielo o meglio non è solo tale, è dapprima un sacro orizzontale terra/terra che lega le cose tra di loro in un rapporto che ci consenta di festeggiare ed apprezzare ogni attimo in cui non ci raggiunge qualcosa.

Noi dobbiamo pregare ogni giorno.

Non pensate al gesto che si fa stando seduti in una chiesa.

Si può fare pregare facendo l’amore, camminando per strada, guardando il soffitto distesi nel letto.

La preghiera è sapersi fragili, sapere che è ancora più fragile chi ostenta la sua forza, come è colpevole chi ostenta la sua innocenza.

Ci serve un Dio che non sia un riparo, ma un luogo da costruire.

(dal libro Geografia commossa … pag.54)

La porta dunque come figura del limite, inteso a sua volta come spazio inclusivo che vive delle differenze; superato il quale significa disporsi alle ragioni degli altri; significa non accontentarsi non arrendersi non rassegnarsi.

Superare il limite significa guardare al mondo nella sua interezza, libero da condizionamenti come il gatto alla finestra di Felicino Patanella che guarda il mondo senza sapere niente del mondo, ‘lo guardava perché la luce ti invita a guardare’.

Aprire le porte, spalancare gli orizzonti è anche lo specifico dell’insegnamento – insinuare il dubbio della conoscenza e fornire la forza per fugarlo e non lasciarsi opprimere, guardare oltre l’apparenza delle cose e ricercare certezze nella consapevolezza che quelle trovate sono temporanee e provvisorie ma rispondono allo scopo di non lasciarsi sopraffare dall’angoscia. Cercare è un’attività estenuante, non sempre ottieni dei risultati, anzi il più delle volte la fatica supera la resa e ti sfianchi, ma quando si accende la lampadina, all’improvviso e ti illumina il buio nel quale sei caduto, ti senti un gigante.

C’è stato un momento nella storia dell’arte – e mi riferisco alla metà dell’Ottocento – in cui il pittore lascia il suo studio, apre la porta e va incontro all’ignoto, allo sconosciuto; supera il limite della realtà stessa, varca la soglia e si dispone alla comprensione del mondo di cui vuole cogliere non tanto le fattezze esterne quanto l’essenza delle cose.

Dalla pittura di studio predeterminata controllata ordinata rassicurante alla realtà mutevole incostante incontrollabile: si compie una rivoluzione del vedere che non si fermerà più. Da qui la deformazione, l’abbandono dell’armonia e della bella composizione, la molteplicità dei punti di vista, la esplorazione della dimensione onirica, metafisica fino alla totale scomparsa del soggetto in cui il segno si fa gesto artistico. I rischi sono alti, isolamento comunicativo, autorefernzialità, arbitrio sono tra questi, ma la strada è senza ritorno.

Anche Arminio va alla ricerca delle realtà non apparenti, i suoi pensieri riportati su un bloc notes, o dettati al figlio, scollegati, non sistematizzati volti a trattenere delle impressioni diventano gli schizzi di viaggio che alimenteranno poi pensieri e/o versi in cui si ritrovano i fondamentali della nostra esistenza,

I temi posti sono quelli che afferiscono alle domande dell’uomo, al rapporto con le cose, alla politica ed alla economia, ai rapporti sociali, al sacro e al divino. Ed il tempo: un tempo inteso non come scansione razionale ore/giorni/mesi/anni ma continua ininterrotta DIMENSIONE ESISTENZIALE.

I suoi filmati sono una lirica del tempo lento: non significa ‘perdere tempo’ o sprecarlo, piuttosto ritrovare il principio della attenzione, del tempo utile per osservare le cose ed apprezzarle, il tempo della riflessione e della meditazione, di una temporalità connaturata ai ritmi dell’esistenza umana.

Un tempo impiegato che si oppone al tempo vissuto senza letizia, al tempo che passa senza lasciare traccia, che si impone in un movimento di inerzia che prescinde da noi.

Di fronte alla crisi oggettiva della modernità, dei suoi miti e di un modello accelerato che impone la crescita a tutti i costi ed è fallita, incapace di indicare una rotta meglio sarebbe prenderne atto e dichiarare la propria debolezza.

Una critica ma non di tipo ideologico: scaturisce dalla constatazione degli inganni e degli imbrogli della modernità.

Quando critico la modernità penso a quella rozza che ci hanno propinato i politici e gli economisti, ma c’è una visione più dolce, più quieta, c’è una visione perplessa a cui dobbiamo affidarci e ci v iene da tante esperienze di vita e di pensiero che sono qui tra noi.

(dal libro – Geografia commossa … pag.99)

E poi le alternative.

Avremmo bisogno di una politica che abbia una dimensione mondiale e una dimensione locale, una capacità di vedere nello stesso tempo le questioni di una vallata e quelle di un continente (dal libro – Geografia commossa … pag.41)

Intrecciare politica e poesia economia e cultura scrupolo e utopia

(dal libro – Geografia commossa … pag.99)

La risorsa è nella poesia come agente di contaminazione della politica e della economia; di una poesia intesa come capacità della politica di riportare al centro della sua azione l’uomo e non il profitto o un finto benessere; ma non una poesia da esibire, magari da attribuirsi quasi con spocchia; una poesia invece da ‘indossare come un abito e da cucirsi procurandosi la stoffa’, una poesia militante che abbandoni i salotti letterari e vada incontro agli uomini.

Come definire ora ‘Geografia commossa dell’Italia interna’?

Il titolo contiene un programma: da un lato la geografia come lettura attenta di un territorio, quella Italia delle montagne verso cui esprime fiducia.

Da qui può partire un nuovo modo di vivere i luoghi, radicalmente ecologico, improntato a una idea di comunità inclusiva del respiro degli uomini e dell’ambiente.

L’Italia interna può diventare il laboratorio di un nuovo umanesimo, l’umanesimo delle montagne.

(dal libro – Geografia commossa … pag.22)

Dall’altro la partecipazione emotiva affettuosa clemente con la quale accompagna il proprio sguardo.

E’ un libro di cammino, un cammino in cui Arminio non è solo: suoi compagni di strada sono geografi, filosofi – Hillmann – urbanisti, economisti – Latouche, antropologi – La Cecla, etnologi e paesaggisti come Clement.

E’ un libro di domande; tra queste se ne impone una: come fare affinchè la paesologia non rappresenti solo una opportunità per scrivere, il tema di una seppure proficua attività letteraria; come fare affinchè questa possa diventare azione ed incidere sull’andamento delle cose.

E’ un libro di movimento, movimento di gambe movimento di occhi ma soprattutto movimento di pensieri e quindi di azioni.

Domanda e movimento sono la stesa cosa: posta una domanda bisogna trovare una risposta e quindi agire, cercare, bussare alle porte, non avere timore di aprirle, varcarle … chiedere aiuto, pregare, essere umili e discreti avere la coscienza della propria provvisorietà e temporaneità, senza arroganza.

Pubblicato da david ardito

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3 pensieri riguardo “Riflessioni sull’opera di Franco Arminio e sul libro ‘Geografia commossa dell’Italia interna’.

  1. Qui il passato quasi non esiste, se non quello visivo; dei concetti buttati giù come appunti di una psicologia applicata al minimalismo esistenziale, quello dell’evidenza, di individui di paese, sballottati dal tempo storico senza rispetto e che non posseggono più nulla se non il senso della propria precarietà e aleatorietà; tanto secreto sociologico, molto istintivo, impigliato a geografia, filosofia, urbanistica, economia, antropologia, etnologia e paesaggistica, che ha espulso il folklore, una delle essenze vitali delle comunità paesane e contadine, di cui Arminio – novello don Chisciotte? – si fa palatino di catartica emancipazione.

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