ULTIMA PARTE DEL “MIO” VENTO FORTE TRA LACEDONIA E CANDELA

ULTIMA PARTE DEL “MIO” VENTO FORTE TRA LACEDONIA E CANDELA
Paesologia per conoscerci e trasformare il mondo

La prima parte dell’articolo è stata pubblicata qui:
http://comunitaprovvisorie.wordpress.com/2013/10/18/due-parole-sul-mio-vento-forte-tra-lacedonia-e-candela/

di Sandro Abruzzese

Il vento e la gente della terra dell’osso costituiscono il teatro del racconto di “Tonino nel paese della cicuta”: letteratura autentica. Storia di amore e vita non corrisposti (non per Didone o Penelope ma per la figlia del Macellaio). La storia di Tonino è sogno infranto (voleva fare il radiocronista), nevrosi della mente e infine del corpo. Tonino è storia di chi “nasce col vento contrario (…), chi infila il mondo dalla strada sbagliata (p 46). E’ solitudine, certo, ma soprattutto profonda umanità, spaccato di vita e quindi di morte, compassione e dolore. Solitudine spaccata dal dolore e assediata dall’incomprensione.
La compassione, il patire insieme che porta addosso nel suo vagare, fa dire ad Arminio: “(…) la vita è una cosa che ci sfinisce tutti quanti, nessuno le resiste, è un rullo e noi dobbiamo tornare pietrisco, noi dobbiamo cadere uno alla volta per fare da strada agli altri” ( 51).
Questa storia e il brano sopra citato trasmettono una prosa lirica che è sinolo, prosa e lirica allo stesso tempo per cui potremmo dirla “pro-esia”, denotando con questo termine una poesia brada mista ad una prosa aedica, parola dell’inedito, parola dell’osso, del cemento, d’argilla di calanchi, di tufo e pietra viva: proesia quale pietra viva.
In “La vita incomprensibile” la visita ai resti di Conza vecchia stimola nel poeta una potente “memoria del sottosuolo” arminiano quale confessione e manifesto della sua interiorità:
“Io cerco gli esseri come un bambino (…), parlo un alfabeto perduto e un po’ folle. (…) mi avvicino al corpo degli altri come un pezzente, e ogni volta che apro la mano non arriva niente” (pp 52-3). Non si può prescindere da questo brano per capire Arminio, il quale cerca e chiama l’umanità: “il mio amore per il mondo è così disperato e infinito da farmi apparire chiuso nel mio narcisismo. (…) Non finisce mai di stupirmi notare come tutto questo non interessi a nessuno. Mi stupisce come nessuno venga a prendere il fresco della mia ombra, come nessuno venga a studiare da vicino questa follia che mi tiene al mondo. Lo so che ce ne sono tante, una per ogni persona forse, o forse ce ne sono poche (…) Tutto il mio tormento sta nel cercare di sfuggire a questa logica, di arrivare insieme a qualcuno in un luogo in cui gli uomini sono uomini e altro, in cui gli alberi sono alberi e altro” (p 54).
In Val Germanasca piuttosto che a San Cassiano, a Sant’Agata, San Giuliano, Calvanico, Arminio continua a cercare ognuno di noi. Ribadisce la sua intuizione secondo cui rivivere gli appennini e i paesi è non solo possibile, bensì la rivoluzione di cui questo Stato ha bisogno. Sembra suggerire che se siamo alla continua ricerca degli altri, è possibile un’altra Irpinia, un altro Sud, un’altra Italia. Ma solo a patto che la nostra vita venga spesa in qualche misura per e insieme agli altri, una nuova “ginestra” dalla vita attiva e scevra dagli addittivi deleteri della modernità.
La paesologia quale lotta per riempire di nuovo i campi, nutrire di attenzione le sedi dei partiti, agire anziché vedersi vivere nel riflesso delle tv, in queste caverne platoniche che, come ha ben illustrato il regista Erik Gandini in Videocracy, vendono l’illusione della vita. Franco Arminio invoca un nuovo umanesimo delle montagne, motivo per cui la sua intensa spinta è solo il possibile inizio di qualcosa che dovrà prendere altre forme per non cadere nella foiba delle innumerevoli occasioni sprecate di questo meraviglioso Paese. Ognuno dovrà fare la propria parte e tutti abbiamo bisogno dei Carlo Petruzziello (“Prata e il suo eroe sconosciuto” p 148) in quanto “semplicemente in lui la vita coincide con il fare”. Ex imprenditore edile per mestiere, scultore per vocazione nonostante un braccio solo su cui contare, simbolo della determinazione che occorre per riplasmare l’enorme “masso informe” rappresentato dal’appennino italico: la spina dorsale dello stivale. A ognuna delle nostre vite serve Carlo Petruzziello.
Nelle pagine di Vento forte tra Lacedonia e Candela risulta evidente che lo scrittore trae la migliore linfa dall’entroterra che gli arde dentro, da quelle terre friabili, in moto perpetuo, specialiste del sussultorio. Nel dialogo con quelle lande il poeta si nutre, pianta con le radici, e man mano che vi si allontana la sua percezione perde vigore e forza, lo sguardo perde fuoco e lucidità.
Vento forte si conclude con Istantanee e Zibaldone. In quest’ultimo si registrano preziosi brandelli, ogni volta poche righe, lampi di universi dotati di sincera forza plastica: “Io appartengo solo al mio paese. Sono un dente dentro la bocca del cavallo, un mattone dentro un muro. Sono il vento che mi agita la testa, che rompe i minuti in cui cammino” p 148. Ancora: “Certe volte penso, per darmi coraggio, che dai posti considerati minori può partire qualche scintilla. Dalla loro flebile vita può aprirsi lo spazio per una nuova compassione e una nuova alleanza con la natura”.
E poi il paese e in particolare il suo, Bisaccia amore ed odio, padre oppressore che genera il conflitto da cui emerge la paesologia quale medicina della sussistenza mordace, utopia della rigenerazione: “(…) forma d’attenzione (…) sguardo (…) dilatato, verso queste creature che per secoli sono rimaste identiche a se stesse e ora sono in fuga dalla loro forma” p 180.
Dunque, il paese “rimpicciolisce anche il narcisismo. Se uno si crede un genio non ci crede mai fino in fondo”. Gli esercizi di paesologia di Vento Forte non si pongono il problema del contraddirsi, non hanno l’assillo della sistematicità, piuttosto sono breccia dentro di noi, osservazione del particolare per cogliere l’universale: pietas e necrofilia, emigrazione e spopolamento. Tutto nato da un “banale ripiego”, lo scrittore, “non potendo più vivere nel suo paese ed essendo incapace di lasciarlo, si è deciso a studiarlo” p 184. I luoghi sono il Bar, la piazza, il cimitero, la sede del Comune.
L’opera si conclude ribadendo la naturale propensione esistenzialista del poeta bisaccese, tuttavia la lettura di questo Arminio finisce col generare quello che accade anche con l’immenso Leopardi. Egli ricorda il recanatese poiché allo stesso modo sprigiona il contagio del riscatto e la voglia di mettersi a camminare, credere in un nuovo vivere comunitario, un romantico illuminismo dell’esistenza fatto di decrescita e artigianato, poesia e politica, sviluppo sostenibile e progresso, accorato civismo. Con Arminio il disincanto abbandona il campo a stimoli che partono dal basso e aprono strade impensate, e il merito è di fornire consapevolezza, indicare possibilità: tutto ciò a patto che smettiamo le maschere quotidiane, spegniamo le tv, e scendiamo nelle piazze, nelle strade, a tessere trame che narrino un’altra storia di noi, costituita da vita autentica, perché l’unico antidoto contro l’inesorabile scorrere del tempo rimane ancora lo stare insieme, la comunità.

La prima parte dell’articolo è stata pubblicata qui:
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Pubblicato da david ardito

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