Fuori dalla (immobile) corsa del tempo

entroterra #15 – di Giovanni Carrosio (*)

Un nuovo senso di alienazione pervade la vita metropolitana. Esso deriva dalla neo-struttura del tempo della società tardo-moderna, che è regolata, coordinata e dominata da un rigido e severo regime temporale, nel quale l’uomo non può agire spazi di libertà significativi. I tempi individuali devono conciliarsi con i tempi di un più ampio macrocosmo sociale, dove esistono degli imperativi sistemici che determinano le scadenze e le condizioni temporali dei singoli. Questo regime del tempo, che assume sempre più forme totalitarie, viene chiamato logica dell’accelerazione sociale (Rosa, 2015). Una logica che si nutre di accelerazione tecnologica, grazie alla quale lo spazio viene compresso o addirittura annichilito per effetto della velocità delle comunicazioni. Di accelerazione dei mutamenti sociali, che porta gli atteggiamenti, gli stili di vita, le forme con le quali si attuano i rapporti di lavoro a cambiare sempre più rapidamente. Di accelerazione del ritmo di vita che palesa la paradossale carestia di tempo nella quale è caduto il vissuto metropolitano. I tassi di crescita delle azioni superano i tassi di accelerazione. Per questa ragione il tempo scarseggia sempre di più, anche nell’epoca del Covid.

Questo paradosso dell’accelerazione, si traduce in una nuova alienazione: dallo spazio; dalle cose; dal nostro agire; dal tempo esperito; dall’ambiente.

Ma come ci ricorda Virilio (2011) nella teoria dell’incidente integrante, ogni meccanismo che ha pretese totalitarie è sempre minato da elementi di dissidenza interni. La tecnologia stessa, uno dei fattori più importanti di accelerazione, non può esistere senza la possibilità intrinseca di incidenti. “quando si è inventato il battello si è inventato anche il naufragio (…) È qualcosa di insuperabile che però la tecnocrazia censura, essa accetta infatti solo di vedere la positività del suo oggetto e dissimula senza posa l’incidente.” (ibidem, 2001). E così avviene anche per il processo di accelerazione sociale, che manifestandosi genera degli spazi – fisici e non – di decelerazione.

Non tutto lo spazio fisico può essere compresso dall’accelerazione del tempo: esistono spazi dove l’accelerazione ha avuto dinamiche differenti, meno intense, dove anche l’asprezza morfologica ha funzionato da argine. Oppure spazi che sono stati periferalizzati dalla concentrazione dell’accelerazione in alcuni luoghi e che per questo non sono riusciti a stare al “passo con i tempi”. Sta qui la critica oggettiva che le aree interne pongono al processo di accelerazione sociale, e di conseguenza alla nuova alienazione che produce vissuti non qualitativi.

Da una prospettiva culturale differente, ribaltando a tutto tondo la logica di osservazione, possiamo interpretare invece le nostre aree ricche di spazio, periferalizzate dal processo di accelerazione – le aree interne italiane -, come spazi di autonomia e decelerazione, ovvero come spazi di disalienazione – e perciò di vissuti qualitativi, di vita buona. Le aree interne, in questa visione, assumono i connotati di spazi territoriali di dissidenza – degli incidenti integranti – rispetto al tentativo egemonizzante di compressione dello spazio per mezzo del tempo.

Porre l’attenzione su queste aree non significa cercare spazi protetti o funzionali rispetto ai processi dominanti. Significa dare una risposta alla crisi del sistema dominante – alla crisi intrinseca del processo di accelerazione – rappresentato dalla “stasi frenetica”. A fianco della contemporanea velocizzazione e compressione del tempo, stiamo assistendo ad un irrigidimento culturale e strutturale della società. Una stasi paralizzante nello sviluppo interno delle società tardo-moderne: la loro apparente sconfinata apertura e il loro rapido cambiamento sarebbero soltanto elementi esteriori, mentre le strutture profonde delle nostre società sono coinvolte in un processo di irrigidimento. Il segno più importante di questa “stasi frenetica” è l’avanzare di una post-politica che legittima se stessa e alimenta il senso della propria missione ricorrendo in modo sistematico a immagini dromologiche (ancora Virilio, 2011), che insistono sull’esigenza di accelerare i tempi, di abbreviare la durata dei processi decisionali. È l’incedere di un orizzonte post-democratico, un esodo dalle strutture temporali della democrazia. In questa curvatura dromologica e futuristica della politica emerge l’esaurimento della capacità di dominare i processi sociali e di imprimere su di essi un segno di cambiamento – questo il senso della stasi, nella quale sono caduti i luoghi maggiormente coinvolti nella dinamica dell’accelerazione sociale, le metropoli. 

La struttura del tempo delle aree interne, invece, dilatata ed estranea alle logiche di accelerazione, concede alla politica una possibilità di azione più incisiva, di imprimere il segno sulle dinamiche sociali, di ripensare i modi di produzione e di consumo, di aprire i processi decisionali. Qui è già in atto un moto di cambiamento: le aree interne si rivelano come luoghi premonitori di una nuova economia, che è intrinsecamente capace di superare la seconda contraddizione del capitalismo (O’Connor, 1991) – quella tra capitale e ambiente – e di dare risposte alle nuove emergenze ambientali e sociali.

Questa tensione che viene dalle aree interne, questa loro vocazione intrinseca e prospettica è raccontata da molti autori. In un suo recente lavoro, don Luigi Di Piazza scrive riferendosi alla sue origini di Tualis, comune interno dell’Alta Carnia: “sono cresciuto in una terra bella e difficile che si è progressivamente spopolata. (…) Ho vissuto sulla mia pelle l’esperienza della marginalità, il lavoro dei campi, le scuole pluriclassi, le difficoltà degli spostamenti. Eppure queste mie origini mi hanno arricchito enormemente. Per la bellezza dei luoghi innanzitutto: sono sempre con me i rimandi interiori poetici, fiabeschi, legati ai colori dell’autunno, ai copiosi e soffici candidi manti di neve. E poi, i silenzi intensi delle lunghe giornate invernali che mi hanno sollecitato a una continua ricerca di introspezione e meditazione. (…) Mi pare di poter dire che solo dalle periferie può partire e avere seguito un cambiamento autentico della società e del mondo, per il quale le parole giustizia, accoglienza, pace, custodia di tutti i viventi, solidarietà e verità diventino esperienza quotidiana” (2016, p. 3-4).

La bellezza, il silenzio, i colori, l’introspezione e la meditazione sono tutt’altro che capricci borghesi. Sono alcuni degli elementi costitutivi della disalienazione tra uomo e ambiente, che nelle aree interne trova l’immediata possibilità di concretizzarsi in progetti di vita e in un nuovo agire economico. È il salto gorziano dal conflitto salariale alle rivendicazioni qualitative (Gorz, 1975), che sposta la lotta per il cambiamento sociale dai rapporti di produzione in senso stretto al diritto di ogni individuo di godere di una vita piena, di realizzare le proprie aspirazioni, di esercitare senza alcun ostacolo i propri diritti, di ritornare alla natura in un rapporto di convivialità, di riprendere il controllo non solo sulle modalità distributive del valore, ma soprattutto sulla composizione della produzione, cioè sulla definizione qualitativa di ciò che si deve produrre e perché.

Le aree interne rimettono in moto il cambiamento perché ridanno spazio ad una produttività liberata, capace di contrastare la controproduttività dell’accelerazione sociale (Illich, 1981), che con le proprie istituzioni ha superato una soglia critica oltre la quale non solo non è più in grado di creare benessere diffuso, ma finisce per frapporre ostacoli alla sua stessa capacità di accelerare le strutture del tempo. Così come, al di là di un certo grado d’intensità, la medicina produce impotenza e malattia, l’istruzione dissemina ignoranza, l’automobile comporta congestione del traffico, l’accelerazione ha prodotto nuova scarsità di tempo e un irreversibile deterioramento delle condizioni di vita nei suoi centri propulsori.

Le aree interne, in questo contesto, possono allora diventare dei nuovi centri che contrastano la fase di stasi frenetica nella quale è caduta la tarda modernità. Valorizzare spazi di decelerazione per ridare fiato alla politica democratica, rimettere in moto una critica dell’economia politica, costruire relazioni umane nuove e rapporti di produzione differenti.

(*) Giovanni Carrosio è professore di Sociologia dell’ambiente e del territorio all’Università di Trieste e fa parte dell’assemblea del Forum Uguaglianze e Diversità. Inoltre, in qualità di esperto di tematiche ambientali, ha fatto parte del Comitato tecnico Aree Interne (Strategia Nazionale Aree Interne).

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