TERRACARNE, note dalla puglia

metto qui il testo che ha letto vittorino curci in occasione della presentazione del libro alla feltrinelli di bari. il prossimo appuntamento è per venerdì prossimo alla feltrinelli di napoli. l’incontro coi comunitari per discutere di carbonaria è previsto per il primo novembre. 

Sui giornali della settimana scorsa ho letto la motivazione con cui l’Accademia reale svedese ha conferito quest’anno il premio Nobel per la letteratura al poeta Tomas Tranströmer: “Attraverso le sue immagini dense e limpide ha offerto un nuovo accesso alla realtà”. È una motivazione, credo, che si attagli benissimo ad ogni vero scrittore. Cos’altro è la letteratura che lascia il segno se non l’amabile e generosa offerta di “un nuovo accesso alla realtà”? Lo sanno anche i bambini: la realtà può essere raccontata in molti modi. Se consideriamo per esempio i temi intorno a cui ruota questo nuovo libro di Franco Arminio possono tornarci utili anche le puntuali e misurate parole dell’ultimo Rapporto SVIMEZ:

“Negli ultimi anni il Sud è entrato in una fase di crisi demografica che si affianca e si intreccia negativamente con quella economica. […] Le previsioni più recenti ci dicono che nei prossimi venti anni il Mezzogiorno perderà quasi un giovane su quattro […] Se estendiamo ancora l’orizzonte, in valori assoluti, gli attuali 7 milioni di under 30 complessivi delle regioni meridionali si ridurranno sotto i 5 milioni prima della metà del secolo […] Oltre alla bassa natalità contribuiscono, evidentemente, ad accentuare lo svantaggio demografico del Mezzogiorno anche i consistenti flussi verso Nord per motivi di studio e di lavoro. Ad andarsene sono soprattutto i giovani più dinamici e qualificati in cerca di migliori opportunità di formazione e professionali. […] Il risultato di questi cambiamenti rischia quindi di essere un vero e proprio ‘tsunami’ demografico: da un’area giovane e ricca di menti e di braccia il Mezzogiorno si trasformerà nel corso del prossimo quarantennio in un’area spopolata, anziana, ed economicamente sempre più dipendente dal resto del Paese”.

Questo, in grande sintesi, quanto dice il rapporto SVIMEZ. Ma una cosa è fotografare il Sud compulsando statistiche, tabelle, studi e ricerche di ogni genere, e un’altra cosa è andare sui luoghi e vedere con i propri occhi quello che sta accadendo. Non bisogna certo aspettare il 2020 o il 2050 per rendersi conto che in un paese come Ruvo del Monte, mille abitanti di cui settecento pensionati, o in un paese come Conza, dove ci sono quattrocento case e trecento abitanti, il futuro non si conta in decenni ma in mesi. Queste cose può percepirle al primo sguardo chiunque vada in uno di quei paesi desolati che Arminio chiama i paesi “della bandiera bianca”, i paesi della resa. Queste cose sono ancor più evidenti e dolorose agli occhi di uno scrittore che si autodefinisce “paesologo”.

Non andate a cercare questa parola sui vocabolari perché non esiste. La “paesologia” è una invenzione di Arminio, è qualcosa che sta a mezza strada tra un vezzo letterario, un gioco verbale e una scaltrezza comunicativa. In altri tempi la si sarebbe chiamata semplicemente “poetica”. Ma oggi non è più tempo per sottigliezze teoriche. Pur di andare al cuore delle cose – a quella che un tempo si chiamava “verità” – gli scrittori sono capaci di inventarsi qualsiasi cosa.

Ma chi è il  paesologo per Arminio? È un intellettuale solitario che fa dei paesi il principale oggetto delle sue osservazioni e della sua scrittura. Nel suo caso specifico i paesi di cui si occupa maggiormente e si prende cura sono quelli dell’Alta Irpinia che ruotano attorno a Bisaccia, la località in cui è nato e vive. Ma, attenzione, in presenza di Arminio è meglio non usare l’espressione “Alta Irpinia”. Lui a questo territorio ha dato un altro nome: “Irpinia d’Oriente”:

“Chi ci ha chiamato Alta Irpinia?” dice. “Evidentemente chi sta in basso, Avellino o Napoli, e giustamente guarda ai nostri luoghi come luoghi alti. Irpinia d’Oriente è un nome che ribalta il punto d’osservazione. Siamo noi che guardiamo dove siamo e capiamo che siamo a oriente rispetto ad Avellino o Napoli. […] In un mondo in cui le cose avvengono in basso, chiamarsi Alta Irpinia significa già essere fuori gioco, percepirsi come luogo delle mancanze più che delle presenze. Per me Irpinia d’Oriente è un rovesciamento che aiuta anche a cambiare molti dei paradigmi che hanno condizionato la nostra vita. Considerando che da noi la modernità e la crescita ci hanno raggiunto nei loro aspetti più deteriori, ecco che sarebbe il caso almeno di immaginare nuove vie, stando attenti anche qui a dare i nomi giusti. Io la nuova via non la chiamo decrescita, importando ancora una volta il nome da occidente, ma la chiamo ‘umanesimo delle montagne’ e quindi pongo l’accento su una via che nasce da noi stessi fin dal nome che le diamo”.

Qualche mese fa Arminio è stato nel mio paese per presentare il suo penultimo libro: “Oratorio bizantino”, pubblicato, con una bella prefazione di Franco Cassano, dalla Ediesse di Roma.

In “Terracarne” c’è anche un passaggio che ricorda questa circostanza:

“Adesso”, scrive, “si tratta di filare dritto verso Noci, dove incontrerò i ragazzi di un liceo”. Ebbene, in quel liceo, quella sera, c’ero anch’io, invitato dal Comune a presentare il libro mio amico scrittore. Per catturare l’attenzione dei ragazzi pensai bene di cominciare il mio intervento ricordando che il 29 novembre scorso, meno di un anno fa, nell’ultima puntata di “Vieni via con me”, Roberto Saviano, davanti  a dieci milioni di spettatori,  concluse il suo monologo sul terremoto dell’Aquila leggendo una decina di righe scritte da Arminio, un poeta che l’autore di “Gomorra” definì “uno dei poeti più importanti di questo paese, il migliore che abbia mai raccontato il terremoto e ciò che ha generato”. Insomma, usai la notorietà di Saviano, e ancor più forse il peso di una trasmissione televisiva di successo, per evidenziare le qualità e il livello del mio amico scrittore. Confesso però che il giorno dopo un po’ mi vergognai di aver usato quel trucco di bassa lega, da imbonitore, per catturare l’attenzione dei ragazzi. Non sarebbe stata sufficiente la riproposizione di quel brano letto da Saviano per porre i ragazzi davanti alla realtà e alla forza della scrittura? Certo, l’avevo fatto in buona fede, per un puro sentimento di amicizia, ma, mi chiedevo, perché anche uno come me, a volte, si consegna a quella stupida logica secondo cui le cose che contano veramente sono solo quelle di cui parla la televisione?

In questo nuovo libro gli esercizi di paesologia di Arminio vanno anche oltre l’Irpinia, raggiungono i paesi della cintura napoletana, la Lucania, la nostra Puglia, il Molise e si spingono addirittura fino a Bolzano, il profondo Nord del Paese (a proposito dei nomi e dei punti di vista: Bolzano è Alto Adige o Sud Tirolo?). L’andamento del testo è fatto di viaggi e soste: viaggi più o meno brevi nei vari paesi e momenti di sosta nella scrittura per affrontare e riflettere su argomenti come “l’incanto delle facce”, “la manutenzione del fallire”, “la guarigione dei paesi”, “l’elogio dell’Italia disunita” e così via.

L’attività paesologica di questo singolare scrittore viene ulteriormente precisata. Il paesologo, scrive, “in realtà è un cane, ha il punto di vista del cane” […] “La paesologia è una via di mezzo tra l’etnologia e la poesia. Non è una scienza umana, è una scienza arresa, utile a restare inermi, immaturi”.

E il titolo stesso del libro, “Terracarne”, è molto più di una semplice fusione di sostantivi, è l’essenza stessa della scrittura di Arminio. “La scrittura” afferma “ fa la spola tra i mali veri e presunti del mio corpo e tra i mali veri e presunti della mia terra. Terra e carne quasi si confondono e il corpo si fa paesaggio e il paesaggio prende corpo. La paesologia non è altro che il passare del mio corpo nel paesaggio e il passare del paesaggio nel mio corpo. È una disciplina fondata sulla terra e sulla carne”. E ancora: “Io sono aria e vento e creta e niente. Faccio parole con la carne e con la terra. Con le parole faccio carne e terra e niente”. Con un pizzico di attenzione si scopre anche che l’autore fornisce direttamente i cardini della sua idea di letteratura: “Il mio non è il lavoro di uno scrittore che porta avanti il feticcio del suo stile o della sua poetica”. Ecco, siamo al cuore del problema. Lo stile di Arminio è tutto in quella sua apparente assenza di stile. Nella sua lingua non ci sono forme letterariamente ricercate, e neppure trasandatezze. La sua scrittura è sobria, pulita, fatta di “parole semplici, asciutte, senza gonfiori, senza muscoli”. È quasi impossibile trovarvi una parola di troppo, una sillaba di troppo. Il poeta che c’è dietro, insomma, c’è e si vede benissimo. Ma l’aspetto che io amo di più nella scrittura del mio amico è la costante presenza tra le pagine dell’epigrammista di genio. A parte Flaiano, non conosco altri scrittori in Italia che abbiano questo dono. Se si guarda con la lente di ingrandimento, in ogni pagina ci sono decine di microracconti che funzionerebbero alla perfezione anche se venissero estrapolati dal contesto.

Faccio qualche esempio.

– “Ognuno parla da un luogo in cui ha detto addio a tutti gli altri”. (Se uno cerca una spiegazione di quell’”autismo corale” di cui si parla spesso nel libro, eccolo accontentato).

– “Trevìco è un paese invernale anche in piena estate”.

– “A Teora usano la piazza per fare inversione di marcia”.

– “A Cairano c’è il sindaco che vuole portare i turisti al paese. Lui intanto vive in un paese vicino”.

– “A Volturara in piazza c’è un po’ di animazione. Chiedo il motivo. Mi spiegano che oggi c’è il sorteggio per l’assegnazione dei loculi”.

– “Ad Aliano / a fianco alla tomba di Levi / c’è quella di un ragazzo. / Sulla lapide una frase inusuale: / i familiari se la prendono con gli amici / che stavano con lui nel mare. / Nella mia testa / il morto annegato ruba la scena / all’esiliato”.

– “Un cimitero è anche una grande mostra fotografica”.

– “Il rancore per noi è come il radicchio a Treviso o la cipolla a Tropea. Il nostro è un rancore doc, non va confuso con il blando rancore che si trova ovunque nel mondo”.

– Qualche tempo fa a Pagani, “piazza Corpo di Cristo, fu intitolata a Marcello Torre, il sindaco ucciso dalla camorra, ma la potente chiesa del posto si oppose e la piazza è tornata al suo vecchio nome”.

– “Il mio paese si chiama Bisaccia, ma la gente abita quasi tutta in un paese a due chilometri che da sempre tutti chiamano ‘Piano regolatore’”.

All’inizio citavo Tranströmer, il vincitore quest’anno del premio Nobel per la letteratura. Il Corriere della Sera e Repubblica parlavano di lui la settimana scorsa definendolo “il poeta del silenzio”, “il maestro del silenzio”. Chi, come me scrive versi, sa benissimo cos’è il silenzio della poesia, quel silenzio senza il quale la poesia non avrebbe la più piccola possibilità di esistere. È il vuoto che circonda ogni parola, lo spazio bianco che fa di ogni elemento del testo un nome proprio. È la pausa tra un verso e l’altro, tra una parola e l’altra, tra una sillaba e l’altra. È la vertigine di un “a capo”, la cesura improvvisa e inattesa che crea quella che Celan chiamava una “svolta del respiro”. E anche Arminio, che è un valentissimo poeta, conosce bene questo silenzio. Lo conosce a tal punto che può spingerlo oltre i confini stessi della scrittura, fin dentro la realtà agonizzante dei suoi amatissimi paesi che riesce ad ascoltare anche quando tacciono.

Nel capitolo intitolato “L’incanto delle facce” scrive: “Una volta avevo più foga di ascoltare, di capire. Adesso i paesi hanno imparato a insegnarmi i loro misteri anche in silenzio”. E allora penso si giusto concludere leggendovi una bellissima pagina in cui Arminio ci parla proprio di come lui percepisce questo silenzio:

“Ogni paese ha il suo silenzio. Dipende dalla forma. Il silenzio di un paese concavo, appoggiato in una valle, è diverso dal silenzio di un paese convesso che sta in cima a una montagna. E poi c’è la disposizione delle case, la presenza della vegetazione, l’esposizione geografica, il fatto di essere a nord o a sud, la vicinanza o meno a una città, perfino il reddito ha influenza sul tipo di silenzio che percepisci dentro un paese. Girando per i posti più affranti e sperduti immagino di essere diventato un esperto di silenzio. Quello di Cairano non è come quello di Montaguto, penso a due luoghi della mia Irpinia. E perfino nello stesso paese il silenzio subisce numerose variazioni, quello estivo non è come quello invernale, quello del mattino non è come quello della sera, quello di un giorno in cui è morto un giovane è diverso da quello di un giorno in cui è morto un anziano. Queste sono ipotesi paesologiche. Di una cosa sono sicuro però: il silenzio vissuto per un giorno è assai diverso da quello che si vive ogni giorno. Il silenzio che sente la vedova nel suo vicolo, col figlio a Torino e il marito al cimitero, con le vicine di casa deportate al paese nuovo, è un silenzio cattivo, che fa tanto male. È il silenzio delle porte chiuse, delle case abitate solo dai ragni e dalle faine, dei pochi giovani che passano senza nemmeno salutare. Non basta tenere la televisione accesa tutto il giorno per arginare questa valanga di silenzio che sommerge ogni cosa. La vedova era abituata a vivere in un paese che era una trama di racconti e di storie. Al forno, davanti alle fontane, vicino al camino, ogni occasione era buona per farsi compagnia con le parole. E quando non si parlava comunque potevi sentire il rumore di chi lavorava. Adesso non si sente il martello del fabbro, non si sente la sega del falegname, non si sentono nemmeno i versi degli animali. Chi viene dalla città e arriva nel paese per qualche ora, trova un silenzio che gli fa tanto bene, un silenzio che gli fa credere di essere in un luogo di pace e tranquillità. Non è affatto vero, il paese, oggi, è un luogo snervante, in cui non è per niente facile rilassarsi. I motivi sono tanti, compreso il silenzio e il suo perenne rimandarci alle cose che ci mancano, che non ci sono più. A me questo non dispiace. Giro per i paesi proprio per le cose che non ci sono più. In fondo le delusioni, le mancanze sono le stampelle a cui si sorregge la mia scrittura”.

Libreria “Feltrinelli” di Bari, Venerdì 14 ottobre 2011

2 pensieri riguardo “TERRACARNE, note dalla puglia

  1. sì, grazie. ho perso il primo libro, non perdo questo. e poi torno indietro, giuro. nella via appia anche volendo si torna indietro? tante buone cose, lievi sempre come che sia, per tutti, paesani e spaesati. cmc

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