“Rivivo, dunque. Ma solo, terribilmente solo. Debbo rifarmi su nuove traccie la vita — una vita tutta mia, una vera vita nuova. Non ho altri alleati e compagni che me stesso. Non e’ è una mano che mi sorregga se sporgo la mia nel trabalzar dalla risalita. La terra è piena di voci ma si tratta di «buone novelle colle quali ho desinato e cenato e che non mi dicon più nulla. Son per gli altri — per i non liberati.
Eppure per ricostituirmi, per raddrizzarmi, per rimettermi a camminare, ho bisogno di appoggiarmi a qualcosa, di rimetter le radici in qualche posto. Non ho che me stesso ma questo me stesso è legato più strettamente con una parte dell’ universo. Non sono un uomo metafisico e assoluto sospeso nell’atmosfera dei concetti. Son nato in un certo posto, appartengo a una certa razza, ho dietro di me una storia, una tradizione. Raccogliere e concentrare me stesso significa pure rimettermi in contatto colla mia terra nativa, col mio popolo, colla cultura da cui, voglia o no, son uscito.
Debbo ricominciare da capo, rinascere, — tornare, cioè, alla matrice prima, non quella di carne della mamma, ma quella più vera e maggiore della patria. Finché sono stato soltanto un maniaco di cerebralità la mia patria era il mondo e la mia libreria era la nazione dove ritrovavo le sole leggi che rispettassi. Ma oggi che voglio rifare gli ossi e rimettere il sangue in movimento debbo ripigliar lo slancio dalle origini e tornare alle ràdiche più profonde del mio essere completo e concreto.
Per questo ho voluto rifar conoscenza col mio paese e ritrovandolo ho riscoperto meglio anche l’anima mia. I dottori ordinano ad alcuni malati l’ aria nativa. Per un caso felice quel convalescente ch’ io sono è tornato a riempirsi il petto dell’aria paesana e se n’ è trovato bene. Finché fui affogato nella universale cultura teorica rimasi uomo di casa e di città. Abbandonai la campagna o, se ci andai, non la vidi, non l’abbracciai, non le volli bene. Ma il viso della madre non si vede che dall’ alto e lontano dai belletti calcinosi delle città. L’ ho ritrovato ora, sulle montagne, arrossato dal sole, impallidito dalla luna, imbiancato dalla neve, rinfrescato dai fiori, rugato dal vento, — non mai vecchio, sempre giovane, sempre lo stesso, col sorriso che non inganna.
È inutile ch’io storca questo indolenzito me medesimo per farne un dio d’Atene o un colosso scandinavo. Finché son cervello e soltanto cervello io converso col cinese e col sufi, col professore tedesco e il saggista inglese, col giacobino francese e il sofista greco. Son di tutti i secoli e di tutte le schiatte : capisco e son capito. Le mie parole son gettoni intemazionali che spendo su qualunque mercato.
Ma quando mi raggomitolo tutto in me, anima e corpo, cervello e cuore, e mi voglio incastrare in una razza e inserirmi in un secolo, sento d’esser proprio di qui, e soltanto di qui e di questo tempo. Per quanto io faccia sono un uomo nato in Toscana, fra toscani, fra paesaggi e valori toscani — un uomo nato in Toscana nel 1881, che ha avuto vent’anni col prim’anno del ventesimo secolo e che scrive nel presente anno millenovecentododici. Sono un toscano — non soltanto italiano. La vera patria di ciascuno non è già il regno o la repubblica a cui appartiene. L’ Italia è troppo grande per ciascun italiano: la patria genuina non può esser che piccola. Anche in Francia, paese unificato se mai ve ne fu, Tuomo di Bretagna sente il provenzale come straniero, e il normanno e il lorenese son normanni e lorenesi anche nel cuor di Parigi.
Io mi sento profondamente toscano. I veneti o i napoletani mi son estranei ; li sento discosti da me più di certi barbari. Non ci sto bene insieme; sento che non siamo fratelli. Non basta scrivere la stessa lingua ed esser governati dallo stesso codice per dire di aver la stessa patria.
Anche fra i toscani mi sento spesso straniero e lontano. Ma quando dico Toscana io intendo prima di tutto il paese toscano, i monti, i poggi, i fiumi, — gli orizzonti di questo paese che dalle rosee torri delle Apuane finisce giù alla vasta e solitaria maremma, tra le grandi cime dell’ Appennino e il verde respiro del Tirreno. Intendo questo cielo cosi bello anche quand’è brutto, questo pallore contorto d’olivi, queste lancie nere dei cipressi, questi pingui festoni delle viti su per le colline, queste valli desolate e pietrose dove fiorisce soltanto il cardo turchino e la sulfurea ginestra.
E poi intendo per Toscana i grandi toscani e il loro genio. Dagli etruschi padri, distesi a guardia delle loro tombe, placidi e arguti come i divinatori; dagli etruschiche portaron dall’oriente l’amor del futuro e la sicurezza dell’arte ; dagli etruschi che insegnarono la civiltà ai romani e circoscrissero ne’ loro confini quella che doveva essere l’Italia più feconda di grandi — giù giù fino alla gagliardia di Dante, all’asciuttezza di Machiavelli, alla terribilità di Michelangelo, alla curiosità di Leonardo, alla penetrazione di Galileo. Voi sentite in tutti questi uomini il nerbo, un tal senso plebeo di realismo robusto, la sobrietà, la limpidezza, la grandezza senza gonfiaggine ed enfasi, l’austerità senza bigotterie e rigidezze. C’è un genio toscano eh’ è di qui, con caratteri suoi, che si stacca da tutti gli altri geni italiani e forestieri, e col quale mi sento in piena armonia.
Ritrovar me stesso significò dunque ritrovar la Toscana nella sua campagna e nella sua tradizione. Non più le strade attorno a Firenze, incassate fra i muri bigi e i cancelli dei signori, ma i sentieri dei pecorai su per il dorso dell’Appennino, a tu per tu col cielo, coi boschi ai miei piedi. Non più le alture cittadine del Vial dei Colli o dell’ Incontro, ma le gobbe di Pratomagno e le vette dell’Alpe della Luna. Mi son trovato un poggetto nascosto e sconosciuto eh’ è nello stesso tempo nel cuore e sui confini della mia Toscana. È vicino alle fonti del Tevere, vicino alla selva dove soffri san Francesco, al castello dove nacque Michelangelo, al borgo dove nacque Pier della Francesca. A pochi passi da casa mia venne, da giovane, il Carducci repubblicano. E se monto più in alto intravedo il mare della Romagna e le alture dell’ Umbria.
Su questo poggio sassoso, dove il vento non trova requie, il mio spirito ha ritrovato la calma e sé stesso. In questa cerchia di monti scuri ed aguzzi, su questo prato povero di fiori e di erbe ed irto di sassi, all’ombra di questi cerri duri e trascurati, al rumore di questo fiume stretto ma chiaro che arriverà a Roma sudicio e grosso, sotto questo cielo veramente celeste, trasparente e delicato anche quand’ è sparso di nuvole, ho risentito l’odor vero della terra, il gusto dell’aria, il sapore del pane, e il giusto calore del fuoco di ceppi e di fascine. La vita mi ha riconquistato a poco a poco colla bellezza della sua semplicità. Son tornato bambino e primitivo, selvatico e agreste. Mi son riallacciato ai miei progenitori contadini, ai buoni villani plebei che governaron le vacche e segarono il grano da queste parti. Mi son rimesso in regola colla vecchia famiglia. A questo figliuol prodigo che ha mangiato a tutti i banchetti intellettuali d’ Europa ha pasturato e bastonato i maiali altrui la vecchia casa ha preparato un cantuccio, accanto al focolare tutto nero di fumo, alla tavola d’abete che sa le gialle polende, i prosciutti salati e le pagnotte avvampate dal forno.
Nei primi tempi era tale il gusto del ritrovamento che avevo bisogno di portare in casa qualche pezzo di questa paese fraterno e paterno che riconoscevo e riamavo ogni giorno: un sasso appuntito come una montagna, una gallozzola staccata dalla foglia di una quercia, una ghianda liscia e ben modellata, un mazzo di fiori di campo, una coccola di cipresso, una spiga di granturco. Tutta questa roba povera, semplice, rozza, inutile, senza valore, mi dava un piacere straordinario : la sentivo amica, sorella, parte di me, simbolo della mia terra e della sua tradizione.
Intanto, nello stesso tempo, mi riaccostavo anche alla letteratura dei miei maggiori e paesani. Dopo i primi anni di lettura universale e famelica non ero quasi più tornato verso di loro. M’ero imbevuto di culture esotiche; non avevo letto, quasi, libri italiani; e, fra i libri, avevo preferito i teorici ai lirici, i dottrinali ai fantastici. Ma lassù, dopo quel ritorno alla patria presente, sentii il bisogno invincibile di ritornare alla patria passata. E mi rilessi a poco a poco, all’ombra dei faggi e dei cerri, fra l’odor della menta e il vento della Vernia, i libri che eran miei per diritto di nascita e di rinascita: Dante e Compagni, Boccaccio e Sacchetti, Macchiavelli e Redi, Gino Capponi e Giosuè Carducci. Quei libri che avevo letto per dovere e curiosità, quei libri che mi avevano annoiato a scuola e lasciato freddo fuori, che avevo guardato fino allora come rettorica letteraria o documenti di storia, mi si aprivano ora dinanzi come amici e fratelli, prendevano un nuovo colore, davano un altro gusto, si rianima vano con tutto il primitivo vigore. Questa vecchia roba mi rinfrescava lo spirito. Questi antichi uomini solidi e spregiudicati mi sembravano, per qualche verso, più moderni di me. E sentivo d’esser della stessa casa, d’esser uscito dalla stessa famiglia, di parlare la loro lingua o di poter capire coi miei ricordi anche quel che può sembrare più strano e volgare agli occhi dei forestieri.
Fu come il viaggio di un esiliato al posto della sua balia. Tutto mi ricompari dinanzi come per la prima volta e m’ inzuppò l’ anima di cose che sembravan nuove ma per le quali e’ era il posto già fatto e la cornice appropriata. Le buche dell’ inferno, i fiumi di luce del cielo, Firenze irta di torri e di picche, i giovani libidinosi sverginatori e incornatori, i vecchiotti buffoni e canaglie, i principi furbi e maschi, la naturale cattività degli uomini, i moti delle stelle nell’infinito e del mosto ne’ tini, la storia delle sconfitte e delle speranze, il Valdarno e la Maremma, il Casentino e il Mugello, — tutta la bella terra di Toscana cogli uomini e i giardini, coi cieli e le fonti, dai tumulti del comune ai rimbrotti del ’59, mi rientrò nel cuore e mi s’accostò alla carne come la mamma al figliuolo aspettato che torna.
Non soltanto la sostanza polposa di quei libri mi conquistava, ma sopratutto l’arte magnifica colla quale eran fatti, la meravigliosa lingua nella quale erano scritti. Niente fronzoli, niente enfasi, nessuna trina inutile, mai cattivo gusto o fiacchezza, — roba forte, ottenuta con poco, tutta disegno e rilievo, fatta di bronzo e di pietra e non di panna e di miele. Incisioni profonde, rozze magari, ma decise, chiare e senza un rigo di più. La lingua ricca, sempre nuova, piena di scorci e di ripieghi espressivi senza ripieni, zeppe e annacquature — famifiare e plebea senza perder di solennità e di maestà. Anche qui, come nelle montagne del paese, apparente povertà, semplicità robusta, gioia severa — grandezza e libertà.
La Toscana cosi rifatta è la mia Toscana ma è pure la più vera e famosa Toscana — non quella dei fiorentini imbastarditi, o dei poderi giardini, o degli scrittorelli garbati, dolciati e castrati che- dal seicento in qua hanno appuzzato e tradito la loro patria. Ed io invece a questa più grande ritrovata Toscana voglio restar fedele — che per rifar me stesso mi son dovuto rifare dal punto e dal momento in cui nacqui. Io somiglio alla mia terra e più le voglio somigliare. Non posso più a lungo rinunziare all’eredità dei padri e restar sordo alla voce dei fratelli che non potei conoscere.
Prima era in me tutto il mondo. Dopo mi son ritrovato solo e quasi senza vita. Per riprender le forze ho dovuto riagguantare quel pezzo di mondo che mi era più contiguo ed affine. Ora che ho succhiato di nuovo alle poppe della prima madre e ho risentito la sua parlata — or che mi sento il corpo rinsanguato e la lingua più sciolta posso riprender la strada verso il mio vero destino.”
– Giovanni Papini, “Il ritorno alla terra”, capitolo estratto da “Un uomo finito” –
Opera autobiografica scritta dall’autore allora trentenne e pubblicata nel 1913, in “Un uomo finito” , Papini ritrae se stesso come un uomo “nato con la malattia della grandezza”, donando ad un’”Italia imbecille” e sedotta dalla modernità un monito imperituro sulla dolorosa caducità del vivere tendendo perennemente al Tutto. Un antimodernista ante litteram, che aveva intuito molte delle degenerazioni a venire del progresso e rifugiatosi nella teosofia e nel nazionalismo. Sinceramente nichilista e col coraggio della propria sventura, della propria solitudine tra gli uomini (c’è spazio solo per “Lui”, quel Prezzolini a cui dedicò un intero capitolo di questo libro) e delle proprie posizioni intellettuali più controverse e appassionate – nessuno gli concederà sconti nel dopoguerra, relegando la sua opera ed in particolare questo testo ad un destino avvolto d’oblio, un oblio che oggi torna a goder di qualche pur flebile luce propria per l’attualità delle sue riflessioni più dirompenti, genuine e lungimiranti – Papini sale grandiosamente a conquistare quel cielo troppo distante, vibrando della vertigine dei suoi sogni senza tempo, per poi cadere, cadere e cadere di nuovo, da angelo della conoscenza trafitto dalla residua carnalità che condanna l’uomo al suolo, e quando tutti si attenderebbero un lento e goffo tentativo di rialzarsi per non morire di troppa caduta, cade ancora, definitivamente, donandosi al proprio abisso, toccato dal fuoco.
Un gigante della letteratura obliato attraverso epurazioni di facciata (destino che accomuna Papini ad altri grandi del ’900 come Celine, Hamsun, La Rochelle) e figurato ai posteri come topolino errante e pericoloso, la cui montagna di parole, pensieri e grandi intuizioni, torna oggi, lentamente, ad esser luminosa ghirlanda di senso tra uomini che non sopportano l’oblio di Dio, della Natura e della Poesia.
Una opinione su "“Il ritorno alla terra” di Giovanni Papini"