1.
Ieri verso le sei del pomeriggio ho preso una botta in testa. Adesso è quasi l’una. Devono passare almeno ventiquattro ore dopo un trauma per sciogliere la prognosi. Bisogna rimanere in osservazione. Io sono in osservazione da una vita. E non ho mai sciolto la prognosi. La paesologia nasce da questo stato di agitazione, da questa sospensione di giudizio. Dovunque vado ho il sospetto di avere le ore contate e questo imprime una particolare curvatura all’osservazione del territorio. Forse ne esalta gli aspetti precari, desolati. Anche il paesaggio ha preso una botta in testa e non siamo sicuri della sua permanenza.
Vado sul Formicoso e trovo che sul pezzo di terra fotografato un mese prima hanno piantato una pala eolica. Una volta i paesaggi del sud apparivano immutabili. Adesso anche qui è in corso il cambio d’abito. Se non sono le pale, possono essere i pannelli solari o una casa costruita per rimanere vuota. Nelle nostre campagne ci sono grandi case, con tetti che spiovono da tutte le parti e terrazze dove non si affaccia nessuno. Sono le macchie di un paesaggio ammalato che però ci fa apprezzare meglio il paesaggio adiacente che ancora è rimasto sano. Insomma la malattia e la salute sono sempre più intrecciate. A volte l’assenza di una grande malattia rende piccola la nostra salute, sterile e un po’ cieca. Così è anche per il paesaggio. L’Irpinia lacerata dal dopo terremoto mi pare più bella di altri territori proprio perché più rotta, perché la cicatrice sta esposta al vento e non guarisce.
Ormai quando mi alzo la mattina neppure ci penso a una giornata di pace e di lietezza. So che vivere qui ti consegna obbligatoriamente a un passo claudicante, a momenti di affanno. E devi sempre mettere in conto che se acceleri arriva qualcuno che si mette di traverso o ti trascina verso il basso. Il paesano è per sua natura un controllore. In fondo questo è un modo per dirottare le proprie ansie. Invece che tribolare per il proprio futuro si preferisce circoscrivere il futuro degli altri. Il messaggio è sempre lo stesso: noi siamo una cinquecento, tu non puoi essere una Ferrari.
Gli anziani trovano naturale che vivere la propria vita sia spiare quella degli altri. E quando parliamo di far rivivere lo spirito comunitario dobbiamo sempre aver cura di depurarlo di questi elementi di investigazione inopportuna che avevano le relazioni sociali del passato. Nei paesi le persone non potevano dire la verità su stessi. E non mi riferisco solo alla paura di ritorsione da parte del notabile di turno. La verità non si poteva dire neppure sulla propria vita intima. La parola era sempre adagiata su argomenti neutri. I dialoghi non erano mai sciolti, mai aperti all’imprevisto, alla scoperta di nuovi sentimenti. Purtroppo il modello che ha soppiantato la cultura contadina ha portato sì a una crescita economica, ma pure a un ulteriore impoverimento emotivo. Insomma le persone hanno la casa più grande e comoda, ma la testa è ancora più piccola e gretta. Bisogna partire da qui quando si parla di favorire il ripopolamento dei paesi. Bisogna portare alla luce la fatiscenza emotiva di tanti residenti, oltre alla pochezza intellettuale della classe dirigente.
2.
Poco fa mi hanno commissionato un articoletto da tremila battute per un quotidiano nazionale per corredare una pagina in cui si parlerà dello stabilimento Fiat di Flumeri. È l’occasione per fare un piccolo riassunto su com’è messa l’Irpinia adesso. Ecco.
La Fiat non è la fabbrica più grande dell’Irpinia. La fabbrica più grande è l’azienda sanitaria locale, un’azienda che brucia un sacco di soldi e fornisce pessimi servizi.
La chiusura della Fiat è l’ultimo di una serie di eventi negativi in una provincia che rischia di avere un alfabeto formato da una sola lettera, la d della desolazione. Le industrie in Irpinia sono state fortemente volute dalla classe dirigente locale. L’idea era quella di uscire dalla vecchie miserie cambiando lo statuto antropologico della provincia. Il cambiamento c’è stato, ma non è mai andato oltre la superficie. I vizi del mondo contadino sono rimasti tutti, si sono perdute invece le qualità di quel mondo. Con la modernità a tappe forzate voluta da De Mita e dalla sua congrega è accaduto l’esatto contrario: sono arrivati in Irpinia tutti i vizi della modernità e non si sono mai visti i benefici. In questo singolare baratto a perdere un ruolo centrale l’ha giocato la ricostruzione post-terremoto. Molto ci sarebbe da dire sugli errori di un modello, basato sul binomio ricostruzione-sviluppo, con una ricostruzione che ha dato le case agli abitanti togliendo loro i paesi e uno sviluppo che ha prodotto fabbriche dalla vita breve.
La chiusura della Fiat cade in un territorio in cui i ragazzi sono completamente fuori gioco, come nel resto del sud. Ma qui il rammarico è maggiore, perché i soldi sono arrivati. Insomma, l’Irpinia è diventata la terra della recriminazione. Ovunque si avverte il rimpianto per quello che poteva essere e non è stato. La società civile è molto debole, i paesi sono svuotati e sempre più distanti uno dall’altro. Il capoluogo non ha mai avuto un particolare ardore civile. Si va avanti con i residui del modello democristiano: pensioni d’invalidità, assegni di accompagnamento, un poco di agricoltura e nient’altro. Il turismo è solo un argomento per convegni. I grandi giacimenti naturali come l’acqua e il vento continuano a non avere ricadute sulla popolazione. La colpa, inutile farla lunga, è di un classe dirigente che conosce solo il cinismo e l’egoismo. Il vicepresidente irpino della regione, nipote di De Mita, nel giorno dello sciopero degli operai Fiat era a un convegno di pensionati. Nessuno ha più fiducia in questi personaggi e ormai si reggono solo perché aiutano gli altri a vincere: una volta erano col Pd, adesso sono col Pdl. C’è da sperare che al prossimo giro la sinistra provi a vincere da sola. In un caso del genere avremmo ancora una volta una provincia guidata da una classe politica che per sopravvivere si lega alla parte più spenta della società e fa tutto per spegnere la parte più viva. È un male di tutto il sud e l’Irpinia è il modello insuperato. La gente ha ancora paura di schierarsi apertamente. C’è ancora chi crede che l’economia di una provincia nell’era della globalizzazione possa dipendere dal potere di un vecchio notabile. La fabbrica più grande dell’Irpinia non è la Fiat e non è l’Asl. È la fabbrica degli accidiosi, dei rassegnati, dei moderati a oltranza che non vanno mai in cassa integrazione.
3.
Disteso sotto il sole pancia a terra in un campo di grano appena mietuto a un certo punto stavo per sentire la terra, mi stava arrivando qualche notizia dal profondo, ho avuto paura e mi sono messo a raccontare la sensazione solo intravista. Così si sfugge alla vita, dovremmo stare molte ore al giorno con la pancia per terra e aspettare che la terra si faccia viva da sotto, aspettare che si accorga di noi e ci parli.
4.
Sono ancora le sei, ci sono più di due ore di luce, faccio in tempo a fare un salto in un paio di paesi. Non ho voglia di allontanarmi, vado in posti già visti, la paesologia è una scienza agli sgoccioli e questa è la sua salute. E sono sgoccioli sempre diversi. Io adesso non guardo i paesi come li guardavo due anni fa. E due anni fa non li guardavo come dieci anni fa. Anche i paesi sono cambiati. Hanno meno sangue o ce l’hanno più scuro. E io parlo di meno, ho meno voglia di scherzare. In certi posti ormai non apro più bocca. Certamente non è così a Sant’Andrea.
Oggi c’era uno che voleva mostrarmi due cugini malati di mente, insisteva perché li andassi a fotografare. Poi ho visto Salvatore il milanista che vuole fare uno spettacolo di teatro e mi vuole come ospite d’onore. In mezzo alla strada un tipo che ha vissuto in Australia mi dice che vuole raccontarmi una storia, ma dopo cinque minuti mi accorgo che la storia non c’è, vuole semplicemente avere la sensazione che sta parlando con qualcuno. Un altro Salvatore, che si proclama barbiere e chitarrista, vuole che riprenda con la videocamera le sue canzoni. Qui hanno tutti una piccola predisposizione allo spettacolo. Non ho incontrato, non lo incontro da tempo, il dilanologo immortalato nel film sulla paesologia.
Eccomi a Calitri. Qui il paese è allungato, a Sant’Andrea è come se fosse sempre in corso un festival del teatro di strada. Gli attori sono in pausa, basta fare un cenno e comincia lo spettacolo. Calitri è un‘altra storia, è un paese per me incomprensibile. L’ho visto migliaia di volte, ho anche insegnato qui per qualche anno. Non sono riuscito a farmi un’idea, non so quale sia il genius loci, non so niente. Calitri ha una parte che si attraversa in automobile assolutamente da dimenticare e ha un pezzo antico che sembra essere rimasto apposta per ricordarci cos’era un paese, un groviglio di case gremite di persone e animali. Adesso sono rimaste solo le case.
Anche il giretto di oggi è finito. Arrivando a Bisaccia sempre il solito fastidio per le macchine che girano al paese nuovo. Non c’è più una persona che mi metta di buon umore, hanno tutti un’aria nervosa. Un consigliere di minoranza vorrebbe aggiornarmi sulle vicende politiche. Non so a cosa sta lavorando l’amministrazione in servizio. Tempo fa fu annunciata la creazione di un centro studi dedicato al latinista La Penna. Penso che resterà un annuncio. E la stessa cosa è l’idea di fare un centro studi dedicato all’ex senatore De Vito. In fondo sono idee che servono a occupare un po’ di suolo mediatico. Ci si procura la locandina di un giornale locale, certi che nessuno chiederà conto dello svolgimento dell’idea. Le storie qui in genere non hanno un finale. Un caso clamoroso è quello dell’ospedale: la chiusura è stata decretata da più di un anno, ma tutto continua come prima. E lo stesso si può dire della discarica: si fa, non si fa, alla fine forse si farà, anche perché non avremo più la forza di opporci.
Il mio paese è sopportabile solo quando nevica, quando si blocca la perenne transumanza dal nucleo vecchio al nuovo e viceversa. Ormai non riesco a stare più di due giorni senza allontanarmi. La verità è che per un motivo o per un altro sono veramente poche le persone contente di vivere nei luoghi in cui vivono. Quelli che sono tornati spesso rimpiangono di essere tornati. E quelli che non sono mai partiti rimpiangono di non essere mai partiti. Abbiamo un grande capitale da mettere a frutto: la scontentezza. Io nel mio piccolo lo faccio scrivendo. Cosa può fare un paese con la sua scontentezza?
franco arminio
complimenti per come hai centrato s.andrea e calitri, e per come hai reso queste tue due visioni. e condivido pure che la paesologia è uno sguardo infermo di un infermo su un mondo visto nella sua infermità (se ho capito bene senza rileggere sopra)
un paese con la sua scontentezza può fare la rivoluzione.
pure il giro completo fino al punto di partenza è una rivoluzione.
A me sembra,caro Franco, che il maggior difetto della gente sia la sopportazione e il silenzio. Il brigantaggio, che pure fu un atto di ribellione ,venne praticato in silenzio ed, a seguire, pochi furono gli atti di ribellione “gridati” contro il potere. Di memorabile ci furono la rivolta di duecento donne a Monteleone negli anni del fascismo,la marcia della fame di centinaia di contadini di S.Bartolomeo in Galdo negli anni 50 , l’attacco degli abitanti di Calitri contro i tedeschi e le occupazioni delle terre nella valle dell’Ofanto nel dopoguerra. L’ultimo, tendente a portare dignità al lavoro dei contadini fu di R.Scotellaro ma ,come ben si sa, la repressione del potere e la sua morte precoce fecero abortire il sogno e le speranze di chi ci cedeva. Poi…il nulla. Quell’ apatia che Carlo Levi ben descrive nel suo famoso libro si è rinsinuata nella nostra gente e la classe media (i “Luigini”) hanno continuato a dominare nei nostri piccoli centri con l’avvallo della vecchia Democrazia Cristiana ( complici la sinistra e i sindacati) fino a dopo il terremoto.Ci hanno illuso di ripartire la ricchezza del loro modello di sviluppo regalando rendite fondiarie e modelli disviluppo industriale insostenibili (vedi Fiat e le aziende che hanno sistematicamente chiuso dopo pochi anni).Ora si tirano i conti del fallimento: di non aver saputo individuare un modello di sviluppo che tenesse conto delle nostre risorse autoctone e,soprattutto,della TERRA (ma quanti e chi se ne accorti?). L’incapacità gestionale delle nostre classi dirigenti ha scatenato una guerra (vedi gli appelli degli intellettuali napoletani sulla spazzatura) tra gli abitanti della pianura e della costa (ben più numerosi) e quelli della montagna e dell’interno.I primi tendono a scaricare sugli altri ,grazie al loro peso elettorale, le inefficenze di questo modello di sviluppo che va del tutto reinventato se si vuole garantire la sopravvivenza di entrambi. Per avere un quadro di riferimento storico bisognerebbe partire ,secondo me,dal 1806 (anno in cui la breve occupazione francese del Regno di Napoli eliminò la Regia Dogana delle pecore) e gli anni successivi del Regno d’Italia ,quando fu ridisegnata la geografia amministrativa della nazione e si creò una Campania che non era mai esistita.Vorrei, a proposito e tra breve, scrivere un Post dove attraverso il mio modo di studiare le strade nel territorio irpino,descrivere le origini dei mali che tu ( Franco) intravedi con la paeologia e che secondo me iniziano proprio nel 1806 con l’eliminazione della Regio Dogana.
Un viaggio provvisorio variamente insidiato.
“…Ma i veri viaggiatori sono soltanto quelli che partono per partire; cuori leggeri, simili a palloncini,non si allontano mai dal proprio destino e senza sapere perché, dicono ogni volta:“Andiamo”!Sono quelli i cui desideri hanno la forma di nuvole,quelli che sognano, come fa la recluta con il cannone,piaceri immensi, mutevoli, sconosciuti,di cui l’animo umano non ha mai conosciuto il nome!”
Charles Baudelaire – le fleurs du mal
La comunità provvisoria -che sceglie di essere soggetto-plurale- ha intrapreso un suo viaggio due anni fa! In questo nostro provvisorio viaggio come Comunità , in una sorta di ritorno identitario non nell’inferno conradiano di una contemporanea “Apocalypse now” ,tuttavia abbiamo incontrato i nostri moderni ‘ piccoli demoni cattivi’ che inconsapevolmente vivono di piccolezze ‘umane troppo umane’ che non hanno retto per pigrizia al gioco “leggero e piano” della ricerca dell’ “io” della nostalgia ,della bellezza,della mitezza ,del silenzio e delle malinconia e della ossessiva loquacità del silenzio. Il viaggio è stato la metafora letteraria e concreta della nostra esperienza esitenziale e filosofica individuale-comunitaria inseguendo le ossesionio filosofiche di Faucalut e i sospetti niciani a tutte le forme di metafisiche e microfisiche del pensiero e del potere . Il nostro viaggio comunitario doveva essere il classico “viaggio eterno e simbolico” dove dovevano convivere a loro perfetto agio i profondi e doloranti sconforti dei poeti e dei ‘sognatori pratici’ con le argomentazioni più eterogenee dei cultori del logos,della doxa, dei sogni, della fantasia, dei professionisti delle tèkne e delle arti primarie e secondarie……non dei santi,navigatori ed eroi in cerchi di isole o paradisi perduti. Avevamo scelto di viaggiare senza i confini e osteggiato con intransigenza i pericoli della formalizzazione burocratica… del senso comune e del “fare senza anima e pensiero….di andare avanti in “ una cornice provvisoria che si allargava e si restringeva, in cui si sceglieva volta per volta di andare e si venire liberamente”. Volevamo inventare anche un nuovo modo di fare un viaggio nelle nostre radici senza diventare etnofobici e i nostri futuri senza diventare metautopici.Volevamo essere ‘ossimori’ viventi con la spregiudicatezza di giocarci anche le contraddizioni : sogni-reali. Con uno spirito multiforme e misterioso guidato assieme da Ermes e Atena, le due divinità che lo proteggevono con una natura molteplice e versatile. Doveva poter assumere tutte le forme, prendere tutte le strade, tendere verso tutte le direzioni in modo sinuoso e avvolgente. La sua natura doveva essere ricca di colori e di geroglifici, come un arazzo, un tappeto o un quadro. Essere artificioso come un’opera d’arte, intrisa di magmi notturni e di voli leggeri e solari e segnato da costellazioni luminose, velato e misterioso come la rotta dei pirati, dei ladri, dei pastori ,dei trovatori , dei mercanti e degli amanti. Non indicavamo mete -ripeto- e isole felici da raggiungere ma volevamo vivere felici nella isola-territorio che ci è stata donata dai nostri padri con fatica e anche con gioia. Non seguivamo le chimere o le sirene che ci cantavano ammaliatrici di mondi da scoprire o da indicare ma volevamo conoscere profondamente e far conoscere il territorio in cui siamo nati e vissuti non sempre con la comprensione e il rispetto di chi lo ha governato e sfruttato.Noi che intellettualmente ci siamo educati ad amare il viaggio per amore del viaggio come Gulliver e Robinson non con la malinconia lacerata di Amleto ma con la versatilità operosa di Ulisse ….forse con la dolce e sconsiderata follia di Quijote “il cavaliere dalla triste figura” . Abbiamo imparato a conoscere le insidie della malinconia e della nostalgia ma avevamo sottovalutato i piccoli rancori, le cattiverie, le pochezze,le idee corte,umane troppo umane, delle rivalse e dei riscatti nelle sacche degli umori neri degli animi senza orizzonti e ideali lunghi. Molti di noi si salveranno dal ‘naufragio’ perché per tempo abbiamo imparato ad amare la solitudine a scavalcare ed evitare i frutti malefici dell’isolamento.Ci salviamo perché sappiamo per esperienza umana troppo umana che sono sentimenti che non si possono temere o tacere ma vivere nella loro diversità. La malinconia è insidiosa e la nostalgia è diversa, perché la nostalgia è un sentimento di assenza, cioè fondamentalmente di assenza ma che può essere recuperata con la memoria ,il ricordo e sopratutto con il ritorno a casa e al proprio passato nei limiti del tempo possibile e della terra ridotta e curata dei padri. A patto che in questo nostro viaggio sia la nostalgia che la malinconia diventino sentimenti belli e attivi che ci costringono a superare la pigrizia, la noia , i rancori e le tristezze stimolando la voglia di “conoscere e curare sé stessi” e intraprendere sempre nuovi viaggi dentro di noi e dentro la terra che ci è toccato di vivere
…la terra è incinta!
Mi dite,per favore,perchè non risulta il mio commento?
http://youtu.be/6IV0XS_LWKo
Ci vediamo il 12 ad aquilonia. Avvisate anche altri amici.
parlando di fabbriche post sisma, a fine agosto presenteremo i dati aggiornati della situazione degli operai e delle aziende della 219, in un festival dal titolo “Felicità interna -Sentimento dei luoghi” che si terrà a Pertosa e Auletta e di cui anche Franco sarà ospite.
Le 3mila battute di franco sull’irisbus le condivido in pieno.
p.s. colgo l’occasione per fare un in bocca al lupo a questa nuova avventura comunitaria.
http://www.felicitainternalorda.it