metto qui una recensione di un lettore.
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Ho riletto metà di Terracarne di Franco Arminio due volte, a parte la prima lettura, quella d’un fiato.
Non è facile entrare nell’ottica del viaggio dell’autore nei luoghi del Sud attraverso gli occhi della poesia.
Il fatto è che non si tratta del resoconto del viaggiatore alla ricerca di luoghi poetici e di curiosità paesane, in cui si mettono in scena le sagre contadine e montagnole delle ben note trasmissioni televisive; insomma non è un florilegio poetico di “paesanologia”, ma una voce singolare di “paesologia”. Il confine tra i due approcci è abbastanza netto: mentre il paesanologo va alla ricerca delle tradizioni, degli usi e dei costumi dei centri paesani allo scopo di far risaltare il “diverso” connotante che c’è in essi, l’”esotico” che produce un effetto straniante sul lettore/spettatore, il paesologo, invece, vive sulla e con la propria carne la terra dei paesi che visita e che vive in prima persona; lo sguardo del paesologo è un’area dell’immaginario, in cui convergono insieme gli occhi del geografo, del documentarista, dell’urbanista e del poeta soprattutto.
Il paesologo però non si identifica con nessuno di quelli, il suo lavoro consiste nel “traslocare i paesi sulla pagina”.
Come ben precisa più volte Arminio nell’incipit e nel corpo del libro,Terracarne nasce dalla fusione, poetica e sofferta, malinconica e combattiva, dell’uomo che ama dal profondo la Terra che ha calpestato e che trita ancora oggi sotto i suoi passi, sfiorata dalla Storia, celebrata dagli scrittori o passata sotto silenzio dal volgere del Tempo.
Il Sud che ci racconta Arminio è quello della Lucania e della Calabria, della Puglia e della Campania, dell’Abruzzo e del Molise, una bella macchia d’Italia costituita dalle propaggini meridionali dell’Appennino azzurrate dal mar Mediterraneo, dove il passato, ancora presente, si rastrema nei ruderi dei vecchi centri desolati e abbandonati, in cui albergano faine e ragni, e dove il presente, mai diventato futuro, consuma la sua crisi, crisi di una modernità che ha trascinato nei paesi il peggio della civiltà cittadina consumistica, fatta di affarismo piccolo-borghese ed espansione tentacolare del cemento nelle periferie dei piccoli centri.
Per certi versi Terracarne è un libro che fa male al lettore, soprattutto se questi condivide con l’autore l’esperienza di vivere in un paese, seppure collinare, sfigurato dal cemento e dall’incuria, dove l’unica bellezza sembra quella di inscenare lo scimmiottamento della vita cittadina nelle forme peggiori.
Il risultato di tale processo è che i paesi appenninici stanno perdendo, o già hanno perduto, la loro configurazione antropologica e storica, novelli mostri non catalogabili né più paesi, né ancora città.
Sono paesi dove l’allignamento selvaggio del tumore del cemento procede di pari passo con il processo di desertificazione dell’umanità indigena, fatta di giovani annoiati per il fatto che “qui non c’è niente”, di vecchi il cui unico passatempo è costituito dalle carte da gioco, di mamme vocianti che insieme ai loro bimbi, all’uscita dalla scuola, infrangono il silenzio del vuoto, ben diverso da quello dell’operosità dei tempi che furono.
Anche le piazze, antico cuore storico, manifestano la loro decadenza: bene che vada sono ancora i vecchi o i malati di mente ad animarle, quando un turista fa improvviso capolino in una giornata di afa, mentre dominano sovrane le automobili, la cui elefantiasi, per numero e per potenza, cresce in misura dei nuovi piccolo-borghesi, che hanno popolato i borghi circostanti con ville paradisiache.
In Terracarne è filtrato poeticamente tutto il degrado urbanistico, topografico e paesaggistico dell’Italia dagli anni ’50 ad oggi, quell’Italia di cui sono stati anche testimoni Scotellaro, Pasolini e Levi.
Potentissimo è il linguaggio poetico di Arminio, aderente, pur nei voli poetici, ai luoghi visitati e agli elementi osservati, una poesia che a tratti diventa didascalica, capace di raggiungere le cime dello sdegno o la dolcezza del canto poetico.
La sua prosa è limpidissima, più evocativa che narrativa, infatti la cifra stilistica che la contraddistingue è nella filigrana poetica che attraversa tutto il corpus testuale; si tratta di una scelta che non è soltanto stilistica(l’autore ha scritto anche delle raccolte di poesia), ma anche e soprattutto autobiografica, infatti nel libro, qua e là, emerge che la ricerca innescata dal viaggio fisico è al contempo ricerca interiore.
Ne è testimonianza un capitolo centrale, Rasoterra, in cui l’identità tra carne e terra si fa più evidente e sull’io-corpo si riverberano le ferite inferte all’io-terra: “Nessun paese più del mio mi fa sputare dal corpo un poco di scrittura” e ancora “Parlo della morte dei paesi, ma il mio tema è la morte, la mia morte”.
È una poesia virile, a tratti apodittica e sentenziosa, ma lontana dalla verbosità sentimentalistica: “I vecchi sulle panchine sembrano insetti nell’acqua di una fontana prima che la lingua della vacca si venga a dissetare” o “La lingua dei paesi è in disfacimento, come l’economia. Il dialetto è come un fiume prosciugato e sopra vi scorre l’acqua chiusa dell’italiano televisivo”.
Mi piace concludere il post con la didascalia poetica, che correda l’explicit di Terracarne: ” Invio all’oceano le mie parole e per conoscenza pure alle pozzanghere”.
di MELCHISEDEC
questo scritto, al pari di quello di anna rotunno messo qui qualche giorno fa, conferma che ci sono persone che sanno ancora leggere i libri e scriverne con intensità. ho ricevuto tante lettere di comuni lettori trovando accenti che spesso sfuggono ai lettori professionali. forse è solo un fatto di tempo. chi legge per diletto ha più tempo di chi legge per mestiere.
Mi fa piacere che abbia apprezzato la mia “recensione”; temevo, parlando di “Terracarne”, di tradire il senso del libro.