Caro Latouche,
quando ero bambino aspettavo con ansia la neve. Ero, come tutti i bambini, desideroso di non andare a scuola. Il mio maestro non era un tipo mite, ma a quei tempi era normale che un maestro maltrattasse i suoi allievi. E allora la neve era una delle poche speranze che avevo, oltre alle malattie, per non andare a scuola. Quando nevicava c’era un altro motivo per cui ero contento. La neve bloccava quel poco di vita motorizzata che c’era nel paese. Mi piaceva che la vita si fermasse, perfino il fatto che andava via la corrente mi dava una certa esultanza, perché con la corrente andava via la modernità. Niente televisione, ma chiacchiere e partite a carte davanti al fuoco.
Erano gli anni sessanta. L’Irpinia cominciava a crescere, era una crescita lenta, che non cambiava l’aria dei luoghi. Le cose nuove, le cose moderne, si sistemavano prendendosi solo una parte della scena. Poteva essere la carta da parati, potevano essere i termosifoni o anche solo il cestino di plastica sulla tavola, comunque era un addobbo superficiale, il paese come focolare e grembo di tutti rimaneva ben vivo.
Poi arrivò il terremoto e la ricostruzione. Qui l’idea della crescita fu quanto mai nefasta. La rottamazione del mondo contadino divenne sempre più veloce e il cesto delle comunità cominciò a perdere molti fili. Lo sviluppismo portò a immaginare piani urbanistici assolutamente sovradimensionati. E il risultato adesso è sotto gli occhi di tutti: ci sono più case che abitanti. E quei pochi che sono rimasti abitano per lo più nelle periferie. I paesi hanno il buco al centro. Da qui la sensazione di vuoto che danno a chi li attraversa e a chi li abita, il loro rianimarsi solo nel mese di agosto o quando c’è qualche funerale. Siamo passati dallo sviluppismo alla desolazione. E i dirigenti politici di allora, che curiosamente sono in gran parte anche quelli di adesso, appaiono come sigillati nelle loro fumose manfrine, tesi a preservare poteri e privilegi.
L’Irpinia di oggi si presenta tumefatta, ammaccata dalla modernizzazione incivile, ma è un luogo molto interessante, perché qui più che altrove si sta provando a dire e a fare qualcosa di diverso. La tua analisi dei guasti prodotti dallo sviluppismo qui trova una palese conferma, ma anche i tuoi ragionamenti sulla necessità di trovare un’altra strada, qui possono trovare un terreno propizio. Magari del mio lavoro parlerò durante la pubblica conversazione che faremo domani. Ora mi preme farti cenno al fatto che a dispetto di tanti sfregi, l’Irpinia è ancora una provincia bellissima. La sua bellezza non è fatta di luoghi famosi e pezzi firmati. Bisogna andarsela a cercare, è una bellezza diffusa sopratutto sui bordi e nelle zone più alte. Penso che ti possa dare belle suggestioni fare un giro in posti come Montefusco, Montaguto, Trevico, Senerchia, Monteverde, Cairano. Proprio in quest’ultimo paese abbiamo fatto per due anni un festival di arti e di pensieri adiacenti all’idea della decrescita. L’Irpinia ha sempre avuto un’economia fragile. E forse questa fragilità ha sempre tenuto viva una certa predisposizione al pensiero. E da questo umore pensoso nascono pericoli e opportunità. Da una parte l’accidia, la maldicenza, e altri prodotti tipici della mentalità provinciale, dall’altra una vena utopica che porta a concepire quello che manca come una risorsa. E allora a Cairano parlavamo di museo dell’aria. E sull’altopiano del Formicoso ci siamo opposti tenacemente a chi voleva esportare i rifiuti in una terra considerata vuota.
Insomma, caro Latouche,
qui ci può essere una significativa ricaduta locale del tuo pensiero.
A questo proposito mi piacerebbe che tornassi in Irpinia per mostrarti quanto sono pieni i nostri vuoti.
Nei prossimi mesi nell’ambito del parco letterario dedicato al grande irpino Francesco De Sanctis, ci saranno una serie di incontri con pensatori ed artisti molto vicini alla tua sensibilità e in generale molto attenti ai luoghi. Non a caso il primo incontro sarà col geografo Franco Farinelli. Mi piacerebbe che l’ultimo incontro fosse con te. Sarebbe incoraggiante che questo tuo primo passaggio irpino ti convincesse a impiantare qui una sorta di laboratorio della decrescita. Non siamo stati bravi a seguire le sirene dello sviluppo, sicuramente saremo meno zoppicanti su una strada in cui si sta bene o si sta male tutti assieme e non ognuno per conto suo.
Io non sono un esperto di economia. La mia critica alla modernità si basa sul malessere che sento in me e che vedo in giro. La dittatura dell’economia mi pare abbia portato a una sorta di autismo corale. Prima era come se la vita di ognuno uscisse da un fondo comune. Adesso questo fondo si è molto assottigliato. Mi viene da pensare a uno zoccolo di luce, consumato dal buio delle infinite transazioni quotidiane per curare i nostri interessi personali. Molti sono riusciti ad affrancarsi dalle miserie materiali anche di un recente passato, ma per tutti adesso c’è lo zoccolo della miseria spirituale. Come se la vita di ognuno, anche quella più ricca, fosse comunque impoverita dallo squallore di fondo in cui girano le cose.
La mia adesione alla decrescita è emotiva prima che intellettuale. Sento la necessità di restare qui, ma di restare contribuendo a inventare nuove comunità. Io le chiamo comunità provvisorie. E con questa espressione penso alla certezza dei danni che il modello capitalista arreca al pianeta e alle persone che ancora possiamo dire umane. Non altrettanta chiarezza c’è sull’alternativa. Forse ci vuole che maturi proprio un’altra percezione, un’altra idea del nostro stare al mondo. E forse il fallimento del comunismo è stato dovuto al fatto che non era poi un modello veramente alternativo al capitalismo. In attesa che arrivi un nuovo umanesimo, che a me piace immaginare possa venire da posti come questo, forse si possono tracciare strade provvisorie, strade che non sono dirette verso il sol dell’avvenire, ma che permettano almeno di farci un poco meglio compagnia.
franco arminio
da il mattino del 18-01-2011
Oggi, 18 gennaio ’12, sull’altura fa molto freddo ma c’è il sole. È la tua scrittura l’ultima neve, non ha paura di cadere e fa rallentare il passo.
Utopia, sogno, speranza, felicità, sono parole che nella mia attività politica ho addirittura paura di pronunciare. le ritrovo qui sperando di poterle usare in un nuovo umanesimo della politica.
Grazie Franco
domani con latouche ed arminio, sarà un bel pomeriggio.
Speriamo che tutto quello che ci sta prima non tolga tempo al cuore della giornata, Magari ci sarà pure la possibilità di discutere di qualche riflessione e di fare qualche domanda.
E’ proprio questo in cui spero, e che cerco, e desidero e che vorrei , non so come, aiutare e fare: trovare, inventarsi, realizzare un’ altra idea di stare al mondo, e di viverci e di farlo tutti insieme. Per questo è bellissimo leggere queste parole, le parole di Franco, sempre, bello per l’ oggi e per il domani che sarà, perchè sentiamo la forza di poterlo far essere noi…
“…..non creditae che io vi inciti a osare la stessa cosa…o anche solo atentare di accettare la stessa solitudine.Perchè chi va per strade sue proprie non incontra nessuno: ciò infatti comportano le “proprie strade”.Nessuno che venga in “aiuto”, e con tutto ciò che gli capita di pericolo,caso, malvagità o cattivo tempo….deve sbirgarsela da solo. Egli ha la propria strada ‘per sè’: e anche il suo occasionale umor nero per questo suo duro ed inesorabile ‘per sè’.A ciò appartiene il fatto che neanche i suoi migliori amici vedano e sappiano sempre dove egli propriamente vada…” Nietzsche ,frammenti postumi
Anche franco parla sempre “per sè” della sua esperienza personale ma parla anche “per noi” senza pretendere di elaborare teorie e dottrine e nemmeno una filosofia della “conoscenza di sè” di un “io” non cartesiano e universale ma personale e comunitario assieme.Paradossale al limite dell’ipocondria senza la pretesa di proporre teorie a un pubblico di lettori devoti ma di attori critici consapevoli,attivi e responsabili di chi dopo un incontro o una esperienza paesologica se ne torna a casa migliore e quasi in volo, camminando con quasi con leggerezza tra le proprie quotidianeità solide e complesse delle modernità.
La paesologia è un invito o una provocazione a cercare “una propria strada” , “un pensare proprio sempre fuori e contro le maniere, per riuscire a vivere libero in panni prori, in un tempo prorio e nel proprio territorio di nascita o di adozione.In Irpinia abbaiamo lo sfortunato privilegio di poterlo vivere oltre che pensare…….
ottimo manifesto, meglio di quelli che descrivevano la comunita provvisoria all’epoca, lunghi e un pò difficili. dice quello che oggi la gente vuole, può urtare solo chi ha un interesse materiale specifico contrario al riguardo
Per chi orbita dalle mie parti Latouche sarà venerdi 20 a Pollica al bio-distretto, Luigi Daina si è premurato di farmelo sapere.
Va bene accorrere attorno a celebrità estere ma meglio ancora sarebbe che arminiani e dainiani si mettessero in contatto (la teoria e il pragma)
La ruralità del 3° millennio è già in mezzo a noi, quasi ovunque ne vedo i segni e ci sono persone- lievito che li fanno questi segni.
Persone radicate ad un paese più di un albero (agricoltori, boscaioli e poeti senza auto e senza bancomat ) e poi ci sono teste gloriose transfrontaliere che seminano ovunque vanno, a piene mani, imperterriti, come Luigi. Senza territorio.
ps.. ma la riunione per il blog è sfumata? mica s’è capito…
“Un nuovo umanesimo della politica”..bellissimo auspicio, Angelo…condivido appieno. Infatti senza di questo non si va da nessuna parte; prova ne è l’ignobile girare in tondo dei nostri politici a tutti i livelli, di gran lunga peggiori delle vecchie generazioni passate.